Pio d'Emilia
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Shinzo Abe, quell’empatia per la vita difficile del killer

Shinzo Abe, quell’empatia per la vita difficile del killer
di Pio d'Emilia
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Lunedì 5 Settembre 2022, 00:05

A quattro anni, mentre era in visita con la madre al padre ricoverato in ospedale, li vede litigare per l’ennesima volta e scappa in corridoio. Quando lo riacchiappano e lo riportano nella stanza, la trova piena di gente, molti sono affacciati al balcone. Il padre si era appena suicidato, gettandosi dal sesto piano. L’anno dopo un litigio domestico con la madre provoca la perdita di un occhio a suo fratello maggiore. Scappa di casa a 14 anni e nessuno lo cerca: la sua vita da “adulto” inizia presto abbandonando la scuola e vivendo di espedienti vari. Per oltre un anno vive vagabondando per la città: nessuno si accorge di lui.

Poi, compiuti 16 anni, decide di fare il volontario con i vigili del fuoco, ma dopo un breve periodo viene cacciato per “carattere irascibile”. Lo stesso succede con la Marina Militare. Torna a casa giusto in tempo per assistere a due tentativi di suicidio della madre e a quello, purtroppo riuscito, del fratello. Nel frattempo scopre che la madre si è indebitata fino al collo: si è rivolta alla Federazione Internazionale delle Famiglie per la Pace e l’Unificazione, nome ufficiale dei “Moonies” (la Chiesa per l’Unificazione fondata dal reverendo coreano Moon). Prima versando l’intero indennizzo ottenuto per la morte del marito (circa 600 mila euro), poi con sempre più frequenti e sostanziosi versamenti. Alla fine Tetsuya, il nome protagonista di questa storia, “sbrocca”. Si costruisce un paio di rudimentali pistole e lo scorso 8 luglio uccide l’ex premier Shinzo Abe. Il premier Abe non è certo stato il premier più amato del dopoguerra, ma il suo omicidio, oramai sono tutti d’accordo, ha ben poco di “politico” e molto di tragedia sociale. 


«Non c’è alcuna giustificazione a questo tipo di azioni, ma di fronte ai sempre più numerosi dettagli che emergono, ci sembra giusto affrontare e discutere la drammatica fase che attraversa la nostra società». Così scrive la rivista “Spa!” nel suo breve editoriale di presentazione di uno speciale sull’assassinio dell’ex premier Shinzo Abe, i cui funerali di Stato – tra mille polemiche – si svolgeranno il prossimo 26 settembre. «Non possiamo nasconderci che la nostra società sta dando pericolosi segni di degrado: non tutti sono capaci di reagire con forza e saggezza alle situazioni avverse – scrive ancora la rivista – il caso di Tetsuya Yamagami (l’assassino di Shinzo Abe, reo confesso, sul quale le autorità inquirenti hanno disposto una perizia mentale) purtroppo non è isolato. Lo Stato e noi cittadini dovremmo riflettere più attentamente sul crescente disagio sociale e condividere parte delle responsabilità».

I casi, solo i più recenti, che la rivista elenca e soprattutto i commenti “empatici”, se non di aperto sostegno, all’azione criminosa portata avanti da Tetsuya Yamagami sono particolarmente indicativi: «Mostrano un preoccupante aumento della rabbia sociale – scrive in un commento il sociologo Akira Tachibana – che un tempo veniva interiorizzata, ma oggi rischia di esplodere in azioni pubbliche. Dalla cultura riservata e tutto sommato socialmente accettabile. Del suicidio stiamo passando a quella dell’omicidio, o addirittura della strage.

Una novità crudele e imbarazzante, per noi giapponesi, alla quale non sappiamo ancora come reagire». 


Un fenomeno che riguarda soprattutto i sopravvissuti della “bolla”: migliaia di giovani espulsi dal mercato del lavoro quando in Giappone (come è avvenuto, in tempi diversi, in altri Paesi industrializzati) è esplosa la cosiddetta “bubble economy” e al tradizionale sistema dell’impiego a vita si è venuto via via sostituendo il fenomeno del precariato, del lavoro nero, dell’impossibilità, una volta usciti dal sistema, di rientrarci. E qualcuno – per fortuna ancora pochi, rispetto ad altre società, specie gli Stati Uniti – ha cominciato a “sbroccare”.


Nel febbraio del 1997 vennero barbaramente uccisi due bambini. Uno aveva dieci anni. Fu trovato, decapitato, in un fosso. La testa era stata recisa con una motosega e appoggiata al guard–rail. In bocca l’assassino gli aveva infilato un biglietto: «Questo è l’inizio di un gioco. Voglio fare una collezione». Per fortuna lo fermarono in tempo: il potenziale serial killer aveva appena 14 anni, i genitori l’avevano “parcheggiato” in una casa famiglia (pochissime, in Giappone) e si erano dimenticati di andarlo a riprendere. Dopo due anni, è scappato. Stesso discorso per Tomohiro Kato, un giovane laureato a pieni voti che per oltre 3 anni non aveva trovato lavoro: una mattina, armato di coltello, semina il panico in uno dei quartieri più popolari di Tokyo, Akihabara. Nel giro di pochi minuti riesce ad uccidere 7 persone e ferirne gravemente una decina. Arrestato, rifiuta la perizia mentale e chiede di essere condannato a morte. I giudici lo accontentano: lo scorso luglio è stato impiccato, è la prima esecuzione dell’anno, la seconda da quando è al potere l’attuale premier Fumio Kishida. L’iniziativa della rivista “Spa” è stata seguita da molti altri media. Su una delle piattaforme web più popolari, “Nico-Nico”, c’è un nuovo canale, cliccatissimo, che raccoglie le testimonianze di cittadini con una storia di gravi soprusi. «Sono cose che dovrebbero essere affrontate seriamente e professionalmente – la psicoterapeuta Junko Okamoto – ma per una serie di motivi in Giappone l’assistenza sociale, il sistema del sostegno, è molto poco diffuso e considerato uno stigma. Anche dire solo che uno va dallo psicologo rischia di creare serio imbarazzo ed una progressiva espulsione dal giro di amicizie».


Resterebbe la religione, ma sul rapporto che i giapponesi hanno con la religione parleremo in un’altra occasione. Per ora, basta sapere che su circa 120 miloni di abitanti, 82 milioni si dichiarano shintoisti (la religione animista locale), circa 40 milioni buddisti, un milione cristiani. I conti, come si può ben evincere da questi dati, non tornano. Soprattutto se poi andiamo a scoprire che presso l’Agenzia per gli Affari Culturali sono registrati quasi 200 mila culti diversi. Alcuni dichiarano milioni, centinaia di migliaia di aderenti. Altri poche decine. Ma tutti, grazie ad una semplice, non verificata registrazione, posso raccogliere fondi. E non pagano le tasse.

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