Alessandro Campi
Alessandro Campi

Movimento in panne/ I leader divisi dalla visione opposta del comando

di Alessandro Campi
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Mercoledì 30 Giugno 2021, 00:10

Giuseppe Conte, avvocato civilista e professore universitario, ha governato l’Italia per quasi tre anni, ha dunque avuto un potere formale e sostanziale molto grande, ma non ha mai fatto politica in vita sua, non ha mai lottato per conquistarsi una posizione. Beppe Grillo, comico e intrattenitore di mestiere, non ha mai avuto alcuna carica ufficiale, nemmeno nel partito-movimento che ha fondato e che ha guidato dall’esterno forte solo del suo carisma, ma ha sempre avuto un animo naturaliter politico, incline cioè al combattimento e all’azzardo. 
S’è visto ieri, in modo probabilmente definitivo, cosa significhi questa differenza. Prima che due opposte visioni o strategie circa il futuro del M5S, in questi giorni si sono infatti scontrate due antropologie, ovvero due storie personali e professionali: da un lato lo spirito visionario incline a rompere le convenzioni, il rivoluzionario che vive di passioni estreme e di estremismi verbali, il carattere inevitabilmente egocentrico e possessivo di chi è consapevole di aver creato dal nulla qualcosa di politicamente unico; dall’altro l’uomo prima di legge poi di potere pragmaticamente aduso alla mediazione, il formalista (anche nella vita) incline a compiacersi del suo parlare forbito e della sua capacità come tessitore di relazioni nel Palazzo, il professionista incline a destreggiarsi tra cavilli, clausole e regole sempre da interpretare a proprio vantaggio. 

Messa così, tra i due non poteva funzionare, per ragioni temperamentali prima che politiche. Anche se forse nessuno poteva immaginare l’escalation culminata nell’intemerata con la quale, posto dinnanzi ad una sorta di ultimatum vissuto alla stregua di un’umiliazione personale, Grillo ha liquidato Conte probabilmente per sempre. Quest’ultimo non voleva una diarchia. Il primo l’ha accontentato mettendolo alla porta con parole, come nel suo stile, spiacevoli e brutali.

Chi ha sbagliato tra i due? Entrambi, è la facile riposta. Grillo s’è dimostrato un ingenuo allorché ha pensato che la crisi di consensi di un movimento nato dalla ribellione antipolitica e dal risentimento sociale potesse essere risolta da un azzimato notabile di scuola meridionale, dall’indole trasformistica. Conte si è confermato uno spirito vanitoso, privo di senso della riconoscenza, allorché ha immaginato di poter costruire il nuovo Statuto del partito a sua esclusiva immagine, arrivando ad escludere da ogni ruolo proprio colui che lo aveva scelto nel ruolo di nuovo capo politico.

Il primo, più che un delfino o successore, cercava un prestanome o un facente funzioni. Ma in politica – su questo Conte ha ragione – non si può chiedere a nessuno di comandare per interposta persona.

Il secondo, mal consigliato o forse troppo sicuro di sé per accettare consigli, ha confuso il gradimento personale che gli assegnano i sondaggi (e che sono comunque cosa diversa dalle intenzioni di voto rivolte ad un partito) con una sorta di chiamata del destino. Ma in politica – su questo ha ragione Grillo – per comandare, per di più con la pretesa di farlo in solitario, bisogna disporre di una forza propria e di una visione originale, non basta parlare bene in pubblico o sperare – con l’atteggiamento del nipote squattrinato verso il patrimonio del nonno ricco e un po’ malandato – che si possa diventare leader per legato. 

Certo, ora si apre per il M5S (e a cascata anche per i loro potenziali alleati del Pd) una fase complicata e difficile. Può davvero accadere di tutto, ivi compresa la dolorosa scissione più volte paventata. Anche se resta da capire quanti di quelli che speravano in Conte capo del movimento saranno disposti a seguirlo fuori da esso. All’apparenza si torna alle origini, come mostra la scelta – simbolica anche se travestita da ragioni tecniche – di far votare il futuro Comitato direttivo attraverso la piattaforma Rousseau. Conte aveva rotto con Casaleggio. Grillo, come primo atto, si è nuovamente legato a quel nome che nella psicologia di militanti e attivisti evoca la stagione eroica e romantica del M5S, quella della purezza e dell’intransigenza, messa a dura prova dall’esperienza di tre anni (affatto esaltanti) al governo. Ma sarà sufficiente richiamare le battaglie della prima ora (la democrazia diretta, l’ecologia radicale, il mito di una politica onesta e trasparente) per riprendersi i voti dei tanti italiani delusi dalla (pseudo) rivoluzione grillina?

Di certo s’è confermata, con questa vicenda, la contraddizione più grande, costitutiva e probabilmente insanabile, che il M5S si porta dietro sin dalla sua nascita e sulla quale i suoi critici non hanno mai smesso di richiamare l’attenzione: un partito che predica la partecipazione dal basso mentre pratica il leaderismo in una forma quasi assolutistica. Un partito d’impronta talmente carismatica da risultare non scalabile o contendibile secondo le procedure della democrazia comunque intesa: su questo punto il M5S è quanto di più simile a Forza Italia si possa immaginare nel panorama politico italiano. E come Berlusconi non ha mai avuto eredi, così non li avrà Grillo. Forse a Conte, prima di infilarsi in questa brutta avventura, sarebbe bastato fare una telefonata a Fini o ad Alfano. 
 

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