Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

La democrazia si può esportare solo costruendo consenso e libertà

di Luca Diotallevi
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Giovedì 19 Agosto 2021, 00:10

Nei commenti ai drammatici eventi afghani di questi giorni spesso è stata citata la frase di un capo talebano: «Voi avete gli orologi, noi il tempo». È qui che bisogna scavare per trovare una spiegazione, forse non l’ultima per importanza, delle sconfitte che l’Occidente delle “società libere” sta subendo in questa prima parte di XXI secolo.

In vent’anni i talebani hanno saputo resistere mentre noi non siamo stati in grado in grado di costruire. Dopo vent’anni, loro sono tornati mentre tutto quello che credevamo di aver costruito si andava velocemente sfaldando. «Voi avete gli orologi, noi il tempo». Cosa significa? A quale differenza tra culture sociali si riferisce questa sentenza?

Per costruire istituzioni ci vuole tanto tempo (per questo le chiamiamo anche “tradizioni”). Al contrario, le scelte individuali hanno come unità di misura l’attimo. Un acquisto, un voto, un calcolo scientifico, una opzione religiosa possono essere compiute in un attimo ed ognuna di queste scelte può essere seguita da un’altra di segno completamente opposto: è un aspetto decisivo di ciò che si chiama libertà. 

Dal canto loro le istituzioni tendono invece a riprodursi ed il loro riprodursi si distende lungo spazi di tempo che sembrano lunghissimi. In breve: la libertà consente il brivido del rischio e l’avventura della differenza, la tradizione offre identità (come uniformità) e chiede in cambio obbedienza (conformità).

«Esportare la democrazia» è brachilogismo utilizzato per significare l’allargamento ad altri individui della società libera, sicché questi ultimi possano cominciare ad avere maggiore margine di scelta (economica, sessuale, religiosa, politica, ecc.). Questa operazione può riuscire? Certo che può riuscire! Dall’impero romano al Commonwealth britannico la storia ha conosciuto numerosissimi casi di conquista o riconquista di nuovi spazi alla libertà. Basta pensare a Germania, Italia e Giappone del secondo dopoguerra; basta pensare ad alcune aree dell’Africa, all’India o all’Indonesia.

Se «esportare la democrazia» è stato possibile in passato, perché ora sembra divenuto impossibile? (Pensiamo al Medio Oriente, al Corno d’Africa, ad alcune aree del Sud America, all’Afghanistan, ma anche alle tensioni tra l’Unione Europea ed alcuni Paesi dell’Europa centro orientale di più recente adesione.)

A partire dall’ultimo terzo del Novecento (a partire dai long Sixties) nella cultura delle società libere è cambiato qualcosa. Tanto nelle opinioni pubbliche occidentali, quanto nelle loro élite e nelle rispettive organizzazioni si è affermata l’idea che la libertà individuale possa crescere solo a spese delle istituzioni: “più libertà” uguale “meno istituzioni”. 
L’Occidente ha perso la sua autocoscienza, ha via via dimenticato o addirittura rinnegato che la libertà richiede non meno istituzioni od istituzioni più blande, ma istituzioni diverse ed addirittura istituzioni più sofisticate.

Prima di allora, invece, per secoli realtà pubbliche e leader occidentali avevano conservato lucida coscienza del fatto che la libertà non cresce nel vuoto di norme e valori, non avevano dimenticato che nel vuoto istituzionale la libertà muore per asfissìa. 

Tanto la libertà quanto la schiavitù hanno bisogno di conoscenze, di motivi e di limiti (di istituzioni), anche se di conoscenze, motivi e limiti profondamente diversi (il difetto di severità dilagante nelle istituzioni educative delle società libere rappresenta questa crisi di autocoscienza in modo esemplare: dietro la maschera dell’indulgenza gli adulti dismettono ogni responsabilità educativa).

Nell’ultimo terzo del Novecento l’Occidente ha perso coscienza del fatto che le sue radici sono non nel vuoto, ma in un sofisticato tessuto istituzionale, l’unico capace di generare una diffusa e multiforme libertà responsabile. Sovranismo, populismo, cancel culture, politically correct, sono modi diversi, ma equivalenti, con i quali oggi si nega che solo un raffinato e complesso ordito istituzionale tiene in piedi “società libere”.

Una volta smarrita l’autocoscienza istituzionale delle nostre società, non sappiamo più «esportare la democrazia». Né pubblico né élite, né elettori né leader politici sanno più affrontare imprese di lungo periodo, non ricordano che la forza militare è necessaria ed insufficiente, sembrano non sapere più che l’impresa di «esportare la democrazia» è multidimensionale, sembrano non sapere più che il successo di una impresa del genere non sta nel produrre stati-fotocopia ma nell’ispirare varianti: il caso Giappone e quello Indonesia dovrebbero far riflettere. Come dovrebbe far riflettere il prezzo che stiamo pagando alla illusione che per acquisire la Cina al mondo libero fosse sufficiente ammetterla alla World Trade Organization (Wto) senza chiederle altro anche su altri piani, quando la Cina non sarebbe stata nelle condizioni di poter rifiutare.

La globalizzazione, ovvero il disegno di fare delle istituzioni liberali il perno della politica, dell’economia, della vita scientifica o religiosa mondiale, non è affatto cominciata da decenni, ma da secoli. E non è affatto fallita. Ha invece portato risultati straordinari. Piuttosto, sta fallendo ora. Sta soccombendo a nemici illiberali (esterni ed interni) da quando abbiamo cominciato ad illuderci di poterla guidare con un software impoverito, senz’anima, senza autocoscienza.

Sempre più spesso noi occidentali siamo simili ad un cuoco che, dopo aver condotto per tanto tempo un ristorante di successo, ad un certo punto ha ritenuto di fare una cosa furba buttando via tutti i suoi libri di ricette.

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