Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

Le statue protette/La sabbia di Kiev per difendere un’identità

di Luca Diotallevi
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Mercoledì 30 Marzo 2022, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 22:30

Le guerre insegnano molte cose. Le guerre danno lezioni, anche se preferiremmo ascoltarle da altri maestri. Ad Occidente oggi dilaga la cancel culture, il frutto più puro e letale del politically correct. Per suo ordine ogni identità va negata, occultata, estirpata; non in ragione del valore delle differenze, ma in ragione del primato di una indifferenza assoluta. Sicché, uccisa la memoria, la speranza, senza respiro né alimento, annaspa.
L’ordine liberale non sopravvive alla soppressione delle proprie radici: chiese, educazione classica, coscienza dei vizi e delle virtù, della fragilità della natura umana ed anche dei suoi più grandi prodotti (democrazia, associazionismo libero, libera stampa, ecc.): così ha scritto persino il “New York Times”, il 17 febbraio scorso, per la penna di uno dei suoi editorialisti di punta (David Brooks).


Nel vuoto, rabbioso quanto meticoloso, scavato dalla cancel culture, Putin e Xi, Erdogan, Bolsonaro e compagnia, hanno trovato l’ennesimo pretesto per cementare le rispettive autocrazie con spregiudicati identitarismi. Che poi l’appeal di quei regimi sia forte anche da noi, negli Usa come in Gran Bretagna, in Italia come in Francia, non dipende da loro, ma da noi. Se ti spogli, hai freddo, e se hai freddo, cerchi qualcuno che ti presti una coperta per scaldarti (e lì per lì non ti chiedi se è …una coperta piena di pulci).
In questo tempo, nel quale potrebbe sembrare che libertà e identità si escludono a vicenda, che la prima si costruisce solo sulle ceneri della seconda e che avere o recuperare una identità si può solo al costo di rinunciare alla libertà, proprio in questo tempo da Kiev e da Odessa, da Mariupol e da Leopoli, dai più piccoli e sperduti villaggi della martoriata Ucraina, ci viene una lezione altissima.


Tutti alla tv abbiamo visto il coraggio con cui in Ucraina si affrontano le bombe dell’aggressore e ci si difende combattendo per i propri diritti, e tutti abbiamo visto la cura con cui la stessa gente nel medesimo frangente portava in salvo crocefissi, disponeva sacchi di sabbia a difesa di musei ed opere d’arte, suonava o recitava laddove altrimenti ci sarebbe stato solo pianto e dolore. Gli ucraini e le ucraine, pur aggrediti e minacciatati mortalmente, non stanno lesinando energie pur di conservare e far vivere i documenti ed i monumenti della propria identità, come realtà vive e perché la loro vita non sarebbe vita se restasse solo natura senza cultura.
Bene, a fare tutto questo – qui sta il punto –, a difendere tanto strenuamente la propria identità, è un popolo che ha scelto la libertà e che per questa scelta sta pagando un prezzo altissimo.

Un popolo che ha scelto l’Europa e le “società aperte”, un popolo che si riconosce e vuole essere riconosciuto parte del mondo libero. Un popolo che ha scelto la libertà a causa della propria identità e non al posto di questa. E la gran parte degli ucraini russofoni non meno degli altri loro compatrioti.


Gli ucraini non stanno affatto chiedendo l’elemosina agli uomini ed alle donne dei paesi più liberi. Chiedono aiuto, certo, ma, mentre ce lo chiedono, ci regalano la testimonianza che all’identitarismo esclusivo, falso e violento, non ci si oppone solo, né ci si oppone davvero, con il politically correct e la cancel culture, ma con una libertà dallo spirito forte e critico che ogni volta ritorna e riparte da una identità precisa compresa e vissuta come non esclusiva. Alla nostra cancel culture dalla Ucraina viene una lezione di lived culture. Una lived culture consapevole anche dei propri residui tossici (nessuna identità ne è priva!) e che di questi residui vede la medicina nelle (anch’esse imperfette) istituzioni delle società libere.


Se quando sui nostri schermi vediamo le cupole o i palazzi di Leopoli, ci vengono in mente Praga, Salisburgo, Vienna, la Baviera o il nostro Alto Adige, no, non stiamo facendo confusione: le forme sono le stesse, e così le note, il tessuto, le ragioni. Come spiegare, altrimenti, che il coro dell’Opera di Odessa canta in lingua italiana il proprio desiderio ed il proprio diritto alla libertà? Perché mai, altrimenti, le canterebbe con la musica di Verdi e le parole del Nabucco?


E se fossero proprio gli amici e le amiche dell’Ucraina ad avvertici che anche noi – bigotti del politicamente corretto – siamo in pericolo? Ed in molti sensi.


E se la loro lezione fosse anche la migliore offerta agli uomini e alle donne di Minsk, di San Pietroburgo e di Mosca? Come se da Kiev e da Odessa si dicesse ai russi: anche al cuore della vostra musica e del vostri romanzi, della vostra pittura e della vostra poesia, ci sono semi originalissimi che possono sbocciare e portar frutto in un campo di libertà e che a quel campo possono donare altra umanità. Abbiate coraggio, tornate a cercarli, riprendeteveli, strappateli a chi ne abusa senza pietà, tornate a goderne, tornate a farcene godere.

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