Americo Cicchetti

Dimissioni di massa/ Cosa significa la grande fuga dal posto di lavoro

di Americo Cicchetti
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Mercoledì 5 Gennaio 2022, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 00:32

Nelle ultime settimane anche in Italia si sta parlando di un fenomeno oramai conosciuto come “The Great Resignation”, la Grande Dimissione. A coniare questa espressione è stato un professore della Texas A&M University di Houston, Anthony Klotz. Nell’aprile 2021, analizzando i dati del Bureau of Labor Statistics (Usa), Kolz ha osservato il record di persone che hanno lasciato il lavoro in un solo mese negli Stati Uniti per dimissione volontaria. Sembrava un dato isolato, ma gli abbandoni sono cresciuti nei mesi a seguire e il trend sembra consolidarsi. Anche in Europa qualcosa del genere è stato registrato. La Germania ha avuto il più alto numero di dimissioni di tutto il continente, con il 6% dei lavoratori che hanno lasciato il lavoro – seguiti da Regno Unito con il 4,7%, Paesi Bassi con il 2,9% e Francia con il 2,3%. Il Belgio ha avuto il minor numero, con l’1,9%.

Le analisi effettuate in Italia sui dati del ministero del Lavoro da diversi ricercatori di ambito economico segnalano che il fenomeno è visibile anche da noi; solo in parte sembra connesso alla perdita di attrattiva di settori molto colpiti dal Covid-19 (vedi i settori food e turismo) contro settori che promettono trend in crescita (assistenza sanitaria e servizi domestici).

Le motivazioni e le spiegazioni di un tale fenomeno possono essere molteplici, ma su due aspetti ricercatori ed esperti concordano: stiamo assistendo all’accelerazione di un processo che era atteso e covava sotto la cenere e che il “grilletto” per l’esplosione del fenomeno è stato il Covid-19.

Ma come interpretare questo fenomeno? Va fronteggiato e limitato? Oppure va considerato come un segno dei tempi che non ha bisogno di azioni e politiche attive? E a quale livello dovremmo agire. Credo che qui ad avere la palla in mano è il management delle grandi organizzazioni, pubbliche o private che siano. Non c’è dubbio che questo fenomeno richiami il management a nuove responsabilità e a modificare il focus della propria azione, rivedendo il rapporto con i collaboratori. Non c’è dubbio che il rapporto tra aziende e lavoratori sia cambiato negli ultimi 50-60 anni. Negli anni ‘60 e ‘70 la relazione azienda-lavoro si basava sulla capacità del management di dare risposta a domande sul “Chi”: chi deve fare che cosa? Chi è responsabile di che cosa? Questo aveva portato alla diffusione dei più conosciuti modelli di gestione per obiettivi (il famigerato MbO).

Negli anni ’80 la domanda è stata, “Come”? Come miglioriamo i processi e la qualità dei prodotti? È il periodo dello sviluppo della cultura della qualità totale e dell’approccio Toyota.

Gli anni ’90 sono stati gli anni del “Quando”? Le imprese sotto la pressione di una “ipercompetizione” rincorrevano il mercato chiedendo ai collaboratori di “reingegnerizzare” i processi per sviluppare risposte rapide e creative in un mercato turbolento.

Ma più avanti, con l’ingresso nel mondo del lavoro dei millennials e delle avanguardie della generazione Z, la prima nativa digitale, la domanda che proviene dai collaboratori e a cui il management deve dare risposta è “Perché?”. La crescente incertezza derivante da fenomeni globalmente preoccupanti (vedi la crisi climatica), hanno portato le persone a riconsiderare il ruolo del lavoro nella scala dei valori. La trasformazione digitale e la riorganizzazione del lavoro ha visto incrementare la richiesta di produttività per i lavoratori, da quelli dei magazzini di Amazon ai “lavoratori” della conoscenza nelle imprese di servizi. Il Covid-19 ha fatto il resto. Lo “smart working” ha compresso i tempi di lavoro eliminando i cuscinetti naturali tra una riunione e un’altra, un incontro e un altro dovuti a spostamenti e pause caffè. La possibilità di lavorare a casa ha in parte compensato questo incremento di pressione sui tempi di lavoro, ma al momento di tornare al lavoro in presenza, il grilletto è stato rilasciato e il colpo è partito. Da più di 20 anni riteniamo che il ruolo del manager e del dirigente sia quello di dare un “senso” alle decisioni prese indipendentemente dalla loro qualità, per motivare le persone al lavoro; oggi la sfida è in qualche modo diversa perché non solo c’è bisogno di spiegare bene perché certe cose devono essere fatte, ma anche perché alcune di esse non possono più essere fatte “a casa”.
 

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