Mario Ajello
Mario Ajello

Il corteo a Roma/ La strana piazza dei pacifisti in lotta tra loro

di Mario Ajello
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Sabato 5 Marzo 2022, 00:10

Tutti in piazza per la pace, ma non c’è pace tra i pacifisti che oggi sfileranno per Roma, dall’Esedra a San Giovanni. È tutto da verificare quanto serva l’ennesima manifestazione rituale, con i vessilli arcobaleno diventare la classica parata politica interna alla sinistra e autoreferenziale tra associazionismo e sindacalismo e forza Landini (che è contro il decreto governativo sull’invio di armi agli ucraini) e abbasso Draghi che quel decreto lo ha voluto e tutti i partiti lo hanno votato, a cominciare dal Pd di cui in piazza ci saranno esponenti e simpatizzanti. In più c’è che nel grande sfoggio dei pacifisti che vogliono trattare con Putin ma Putin non vuole trattare con loro sfileranno insieme ma in fondo divisi quelli che ce l’hanno solo con il presidente russo e quelli che non perdono occasione per prendendosela anche contro gli americani, anzi amerikani con la kappa, i quali sull’Ucraina sarebbero colpevoli di aver disatteso la parola data nel 1999. Ovvero avrebbero, per bocca dell’allora segretario di Stato, Joseph Baker, assicurato l’impegno dei Paesi occidentali a non estendere la Nato verso est «nemmeno di un pollice». E la promessa tradita sarebbe, secondo chi la vede così e molti degli organizzatori della protesta odierna così la vedono, alla base della reazione putiniana. 


Insomma abbasso Mosca e abbasso Washington tutte e due insieme o in parti separate e con diverse gradazioni. E poi questa strana piazza piena di contraddizioni sarà insieme una piazza neutralista e interventista ma più la prima che la seconda. Infatti la Cisl, che con Cgil e Uil era nel gruppo dei promotori, si è dissociata dicendo di non condividere il concetto-cardine della manifestazione che è questo: «La pace è possibile solo fermando la fornitura di armamenti che possono solo acuire il conflitto». Il pacifismo integrale senza se e senza ma, che somiglia alla religione e che unisce Landini e tutti quelli del progressismo andante che rifiutano l’esistenza della guerra nella vita dei popoli e nelle dinamiche del mondo in quanto non rientra nel politicamente corretto, non è quello di chi, ma la piazza sarà appunto mista e disomogenea, attivamente ritiene che per arrivare alla pace serve anche armare la parte dei belligeranti ritenuta nel giusto. Non si tratta di disquisizioni filosofiche, assai deja vu per non dire stantie (del tipo: la guerra è sempre ingiusta o possono anche esistere guerre giuste?) ma di un nodo politico vero e scottante. Che riguarda l’atteggiamento verso il governo Draghi, ormai assediato da più parti (vedi le polemiche continue di Salvini che intanto va a fare lo strano pacifista in una improbabile manifestazione al confine polacco-ucraino, mentre la Meloni si posiziona meglio in un atlantismo robusto che potrebbe contribuire da aprirle le porte di Palazzo Chigi se vincerà le prossime elezioni) e contestato anche da parte sindacale. Con Cgil e Uil che smontano la strategia del premier, e dell’intera Ue, di aiuti militari all’Ucraina, mentre la Cisl la appoggia al punto di ritirare la partecipazione alla manifestazione di oggi stigmatizzando la «sostanziale equidistanza tra le parti in guerra», ossia il difendere troppo poco i resistenti di Kiev negando loro i razzi e i mitra necessari a combattere. 


E il Pd, in questo revival del pacifismo senza pace? Hanno votato il decreto sulle armi, hanno un ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, che molto realisticamente e in linea con i tedeschi e con i tempi che corrono dice che l’Italia nei prossimi anni dovrà aumentare le spese militari, ma i dem non vogliono rinunciare - idem Leu e il resto della sinistra parlamentare che tranne qualche rara eccezione si sono allineati al governo - ad avere un posto di qua e di là, nel Palazzo e nella piazza, nel realismo di scelte complicate e dolorose e nel movimentismo della Rete italiana pace e disarmo e delle altre associazioni, gruppi di base, sigle sindacali come la Fiom, potenze come Emergency e via così, che gridando no alla guerra di Putin e no alla Nato sono su una sintonia che non pare essere affatto quella parlamentare del Pd.

Ma la piazza è la piazza, il politicamente corretto è lì, e guai a starne fuori, anche se oggi non si vedranno bandiere di partito o se ne vedranno poche e naturalmente rosse, oltre che arcobaleno. 


Gli intrecci strani e le aporie di questa parata del Bene contro il Male (ma è più Male l’Amerika o la Russia? Si può stare con l’Ucraina senza stare con la Nato?) raccontano di come l’ideologia sia in fondo preminente su ogni altro fattore e di come la piazza serva a piazzarsi al centro della scena, prescindendo dalle valutazioni serie sul fatto specifico. Ovvero senza pensare davvero a che cos’è questa guerra, perché è stata cominciata, come può finire e in quale modo il suo esito condizionerà i futuri equilibri geopolitici. Ma queste sono questioni troppo profonde, meglio la piazza. E meglio riempirla di retorica e di soliti slogan, anche se la fase richiede altro: il silenzio e la concentrazione per evitare la guerra nucleare dovrebbero avere la precedenza e la prevalenza su tutto, anche sul gioco dei partiti, sulle divisioni sindacali, sui protagonismi di ogni genere - sia politico sia da società civile - sempre dalla parte del giusto anche quando è difficile districarsi nel merito. 
Magari servissero le manifestazioni per fermare le guerre. In ogni caso dovrebbero essere manifestazioni sprovviste di quel carico ideologico, propagandistico e strumentale che spesso hanno queste piazze. Capaci di coprire con il rumore e con il pathos delle grandi adunate - e si prevede che a Piazza San Giovanni oggi non saranno in pochi - l’urgenza nazionale di capire attivamente, senza sbandierare vessilli o rosari, una serie di cose: quale dev’essere il ruolo dell’Italia in questa fase di crisi e nelle prossime che non mancheranno; quali sono gli interessi del nostro Paese da tutelare e da sviluppare; come diversificare le fonti di approvvigionamento energetico se dovesse venire a mancare il gas russo; in che modo far valere le nostre competenze diplomatiche nel concerto degli Stati più importanti che si muovono in una logica di competizione assai serrata (vedi il protagonismo di Macron); e l’elenco di temi pratici e insieme strategici potrebbe continuare a lungo. Viceversa, ci si rifugia nella cerimonia della piazza, nella semplificazione del tutti insieme, ma anche no, contro Ares (il dio greco che rappresenta la furia cattiva, e che di volta in volta agli occhi dei buoni prende le sembianze di Putin o degli amerikani o di tutti e due) e in difesa di un irenico vogliamoci bene che non tiene conto della durezza del gioco internazionale. In questi decenni il pacifismo è diventato mainstream, e s’è gonfiato dell’idea purtroppo irrealistica che il mondo, dopo il ‘900, si sarebbe sciolto in un grande abbraccio. La riprova che così non poteva essere, sta nel fatto che perfino tra i pacifisti non c’è pace.

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