Francesco Grillo
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I costi di Cop27 / L’emergenza sul clima e quei vertici (non) decisivi

di Francesco Grillo
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Martedì 15 Novembre 2022, 00:02

Sharm el-Sheikh, Egitto. Ventisettesima conferenza delle Nazioni unite sul clima. Uno degli aspetti che più sorprende chi arriva ad uno di questi vertici che servirebbero a salvare il mondo, è che essi spesso si tengono in alcune delle più lussuose località del turismo globale. Quest’anno la conferenza sul cambiamento climatico (Cop27), si tiene in un Egitto che è da qualche mese sull’orlo di una catastrofica crisi alimentare, dipendendo più qualsiasi altro Paese del mondo dal grano esportato dall’Ucraina. Sharm el-Sheikh, nel sud della penisola del Sinai, sembra però lontana da tutto. Dall’Egitto, dalle guerre e, persino, dal cambiamento climatico. Ed è, già, forse, nella scelta delle proprie sedi, la dimostrazione simbolica del fallimento di un modello che l’Onu deve immediatamente riformare. Come sostiene, del resto, il suo Segretario Generale Gutierrez. Anche se, in maniera abbastanza causale, all’incontro di Sharm, sembra emergere un’idea interessante.


Il deserto bagnato dal Mar Rosso è uno dei pochi luoghi nei quali le temperature sono rimaste invariate in questi anni di cambiamenti climatici. A novembre, continuano a oscillare tra i 20 e i 28 gradi, attirando turisti italiani che – armati di maschera e pinne – trovano la barriera a corallina a 100 metri dalla costa. Quest’anno ai bagnanti, si aggiungono 40.000 delegati venuti a Cop27 per salvare il mondo e i Paesi più poveri che subiscono i danni più devastanti causati dal cambiamento climatico. I prezzi degli alberghi per notte a Sharm difficilmente scendono sotto i mille euro e si calcola che solo l’ospitalità dei partecipanti al Cop costa ai governi e alle aziende sponsor circa cento milioni di euro. Del resto, tra qualche giorno, il G20 (l’incontro tra i venti Paesi più potenti del mondo) si svolge a Bali che contende a Sharm la palma dei “resort” più costosi. 
Del resto, conferenze così costose risultano modesti. Sulla copertina dell’Economist della settimana scorsa, si introduceva la Cop di Sharm con l’immagine un pianeta trafitto da una freccia che ha mancato l’obiettivo di una mela che gli continua ad essere comodamente seduta su un Polo che si sta sciogliendo. L’obiettivo era quello degli 1.5 gradi come limite massimo fissato dagli scienziati al riscaldamento del pianeta rispetto ai valori nel 1990. Oltre questa linea rossa invocata dal Presidente Biden, il clima andrebbe fuori controllo e centinaia di milioni di persone si troverebbero ad affrontare eventi catastrofici. Ma c’è un’idea che può arrivare dalla comunità arrivata in Egitto al capezzale di un pianeta che potrebbe decidere di privarsi della presenza della sua specie più ingombrante?
Alla riunione di Sharm, il tema più controverso è ovviamente quello degli impegni finanziari che paradossalmente conferenze così costose non riescono a produrre. Dopo il flop di precedenti tentativi, 77 Paesi di più recente industrializzazione ai quali si aggiungono Cina e India (complessivamente rappresentano 6 miliardi di individui) chiedono l’istituzione di un fondo per le perdite (“loss and damage”) già causate dal cambiamento climatico che verrebbe finanziato dai Paesi che vi hanno maggiormente contribuito. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea (con l’eccezione della Danimarca) vi si oppongono.

Tuttavia, ciò è un errore perché rischiamo di lasciare un grande spazio di consenso politico alla sola Cina.


La proposta che uno degli incontri che si tiene in parallelo a quelli ufficiali di Cop27 ha lanciato, è quella di utilizzare l’esperienza europea per provare una mediazione. L’idea è quella di replicare a livello globale il modello usato dall’Unione per trovare una risposta comune all’emergenza pandemica con Next Generation Eu. Il contributo che ciascun Paese dovrebbe fornire ad un fondo globale verrebbe stabilito sulla base di tre parametri con peso uguale: Pil, emissioni passate, emissioni presenti. Le risorse andrebbero investite, invece, per metà in opere che prevengano i disastri più immediati (ad esempio, inondazioni) e per l’altra metà in transizioni energetiche che più velocemente riducano le emissioni. Sia il finanziamento che l’utilizzazione delle risorse riguarderebbe, dunque, tutto il mondo. Anche se il conto verrebbe pagato soprattutto dai Paesi ricchi e inquinanti, e beneficiari dell’operazione sarebbero principalmente quelli meno industrializzati e più vulnerabili. La differenza rispetto a Ngeu sarebbe una gestione più centralizzata (da affidare ad un’istituzione nuova o ad una Banca Mondiale riformata) ed un più forte ricorso a partnership con i privati (banche che possono trovare conveniente investire su energie rinnovabili o fondi alla ricerca di progetti ad alto impatto). 
La stima che i Paesi in maggiore difficoltà fanno è che i danni del cambiamento climatico potrebbero ammontare a 600 miliardi di dollari entro il 2030. Una cifra imponente ma inferiore a quella che l’Unione Europea decise di raccogliere sui mercati finanziari con Ngeu. Un obiettivo ambizioso che sembra alla portata di un’Europa che ha bisogno di recuperare leadership in aree del mondo nelle quali è scomparsa recuperando il suo punto di forza che è mediare tra potenze che su alcune questioni (succede tra Cina e Stati Uniti sul clima), neppure si parlano.


La prima Cop si tenne nel 1995 a Berlino. A presiedere quell’incontro fu una giovane ministra dell’ambiente della Germania nata dall’unificazione sei anni prima. Angela Merkel trovò un mondo spaccato e decise di riaggregare nella stessa stanza le “parti” che avevano interessi simili (i Paesi di più consolidata industrializzazione come gli Stati Uniti; quelli emergenti, tra i quali cominciava a farsi largo la Cina; quelli più poveri, come l’India e l’Africa; quelli che rischiavano di scomparire come le piccole isole oceaniche). Lei, invece, avrebbe fatto da navetta spostandosi da una stanza/ parte del mondo ad un’altra. La più grande mediatrice politica degli ultimi decenni dovette accorgersi che raggiungere accordi sul clima superava persino la sua intelligente pazienza.
Dopo 27 anni, siamo (quasi) al punto di partenza. Impantanati in negoziazioni costose e stanche. Ciò che contraddistingue le leadership è però la capacità di trasformare i problemi in opportunità. Il clima può costringerci a cambiare le istituzioni con le quali governavamo un altro secolo. L’Europa avrebbe in questa partita l’occasione unica per ritrovare prestigio e senso. 


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