Luca Ricolfi
​Luca Ricolfi

Truzzu e Vannacci/ I campanelli d’allarme e le sconfitte solo apparenti

di ​Luca Ricolfi
4 Minuti di Lettura
Venerdì 1 Marzo 2024, 00:29

Apparentemente, la settimana ci restituisce due grandi sconfitti: Giorgia Meloni (e il centro-destra sardo), che ha perso la partita elettorale nell’isola, e il generale Vannacci, finito nel mirino di tre diverse iniziative giudiziario-disciplinari. La sconfitta del centro-destra in Sardegna brucia perché chiaramente legata a una leggerezza nella scelta del candidato presidente della Regione. Non sappiamo come siano andate esattamente le cose, ma sembra verosimile che la candidatura di un candidato debole (secondo i sondaggi) come Truzzu sia stata frutto di una sorta di hybris del maggiore partito italiano: la presidenza della regione spetta a noi, perché siamo di gran lunga il partito più forte, e possiamo candidare chi vogliamo, perché vinciamo comunque.


Non meno bruciante è la quadruplice batosta che, nel giro di poche settimane ha colpito Roberto Vannacci. Accusato di peculato e truffa per le spese del periodo in cui era distaccato in Russia, denunciato per istigazione all’odio razziale, e ora anche per diffamazione (da Paola Egonu), due giorni fa è stato pure sospeso per 11 mesi dal suo incarico, con dimezzamento dello stipendio. Ma, quelle di Giorgia Meloni e di Vannacci, sono davvero sconfitte? Sì, lo sono. Ma sono un sociologo, e in sociologia esiste uno schema concettuale – quello delle conseguenze non intenzionali (Robert Merton) o degli effetti perversi dell’azione sociale (Raymon Boudon) – che talora permette di rovesciare la prospettiva da cui si guardano le cose.


Prendiamo la sconfitta sarda, e proviamo a immaginare che cosa sarebbe successo se qualche migliaio di voti fossero andati a Paolo Truzzu anziché ad Alessandra Todde, con conseguente vittoria di misura del centro-destra. In termini sostanziali, la situazione sarebbe stata praticamente identica: parità fra i due candidati. Ma le conseguenze sarebbero state ben diverse: nel centro-destra non sarebbe partita alcuna riflessione sugli errori commessi, si sarebbero inasprite le faide di partito per le candidature a governatore delle altre regioni, i sondaggi che da qualche settimana segnalano qualche scricchiolio nel consenso sarebbero stati ignorati o snobbati, la imbarazzante vicenda dei manganelli di Pisa sarebbe stata rimossa. Sarebbe stato un bene per Giorgia Meloni? Forse sì, nel breve periodo, molto meno nel medio e lungo periodo. Perché quello sardo ha tutta l’aria di essere stato un (precoce) campanello di allarme, e i campanelli di allarme – se ascoltati – sono salutari. 

Ancora più paradossale è la vicenda di Vannacci. Il calcolo delle probabilità dice che quasi certamente l’accumularsi di tante accuse in pochi giorni, e giusto a ridosso della scadenza per la presentazione delle candidature al Parlamento europeo, non è frutto del caso. Ma qual è l’effetto reale delle accuse a Vannacci?
Non certo di impedirgli di correre per il Parlamento Europeo (lo ha subito chiarito il Ministero della Difesa).

E allora? È possibile che, per qualcuno, l’effetto desiderato sia di danneggiare Vannacci in tutte le dimensioni possibili: stipendio, carriera, reputazione. Ma è strano che non si veda il risvolto della medaglia, ossia gli effetti reali della guerra contro il Generale. Che sono così riassumibili: una ripresa spettacolare delle vendite del suo libro, destinato a diventare un best-seller elettorale; in caso di candidatura, campagna elettorale spianata non solo dal già annunciato sostegno economico della Lega, ma dall’aureola di vittima dei poteri forti e della censura che le sue vicende giudiziarie già gli stanno cucendo addosso.


E poi, la cosa più importante: grazie alla cecità dei suoi avversari, Vannacci è destinato a vestire i panni del paladino della libertà di espressione, una sorta di cavaliere senza macchia e senza paura che osa sfidare la censura. Uno che conduce una battaglia che, un tempo, era di sinistra, ma oggi la sinistra non combatte più, o combatte a metà. Per una parte ahimè troppo grande del mondo progressista, la liberà di espressione è sacrosanta, e la censura orribile, finché le idee da difendere sono quelle “giuste”. Ma se sono quelle sbagliate, il principio non vale più. Se le idee non piacciono, e ancor più se non piace il personaggio che le incarna, improvvisamente scattano i doveri di terzietà, imparzialità, neutralità per chi veste una divisa. Che però non scattano se le idee piacciono, o riflettono lo spirito del tempo, o sono espresse da caste potenti.
Purtroppo è questa la realtà. Se così non fosse, quanti oggi si ergono a giudici e censori di Roberto Vannacci, avrebbero passato gli ultimi decenni a stigmatizzare l’attivismo e la faziosità di tanti magistrati, manifestata in piazza, nei convegni, su internet, nell’editoria. E non avrebbero sorvolato sul fatto che, se la terzietà fosse davvero un dovere, i primi ad esservi obbligati sarebbero coloro che – per il ruolo che ricoprono e il potere di cui dispongono – sono in grado di togliere la libertà al cittadino e di rovinare la sua vita.


www.fondazionehume.it
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA