Vittorio Emanuele Parsi
Vittorio Emanuele Parsi

I veti sul Recovery / La vera sfida di conciliare democrazia e mercato

di Vittorio Emanuele Parsi
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Mercoledì 18 Novembre 2020, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 01:01

Due Europe, due sponde dell’Atlantico e sempre una sola Cina. Quanto emerso dall’agenda internazionale di questi giorni offre una mirabile sintesi delle questioni aperte, che la pandemia attraversa e intreccia tra loro. Nello stesso giorno in cui Emmanuel Macron rilasciava un’importante intervista che rilanciava la sua idea di Europa – una visione forte, elevata, ambiziosa – i governi reazionari di Polonia e Ungheria si mettevano di traverso all’approvazione del bilancio dell’Unione Europea, rivendicando la pretesa di poter trarre i benefici della membership europea a prescindere dalla corretta e piena adesione ai principi dello Stato di diritto. 


Dall’approvazione di quel bilancio dipende anche la “tempestività” (residua) con la quale i fondi di Next Generation Europe saranno disponibili per tutti gli Stati membri.

Fondi di cui l’Italia ha un disperato bisogno e che sono altrettanto necessari ad ungheresi e polacchi, presi in ostaggio tanto quanto gli italiani o gli spagnoli da Kaczynski e Orban. Alla fine la cosa si risolverà, ma nel frattempo avremo perso tempo, posti di lavoro e vite umane anche grazie al cinismo di questi due controversi leader centroeuropei. Neutralizzate le opposizioni interne occorreva mettersi al riparo dalla possibile influenza dell’Unione, nel nome della “sovranità” nazionale, utilizzata come usbergo della propria bulimia di potere.


Il paradosso è che se le attuali Ungheria e Polonia presentassero domanda di ammissione all’Unione se la vedrebbero semplicemente respingere al mittente. Questa assurdità va sciolta innanzitutto politicamente ma poi andrà affrontata istituzionalmente. Il bluff di Varsavia e Budapest va “visto”. Altrimenti l’Unione Europea di cui parla Macron non prenderà mai forma. Non è più possibile andare avanti con due idee di Europa così distinte e incompatibili.


Nella sua intervista Macron ha parlato agli europei, invitandoli a essere più coraggiosi e responsabili anche sui temi della sicurezza comune. Ma ha parlato anche all’America e al suo presidente eletto, Joe Biden. Ha parlato dei valori comuni dell’Occidente democratico e liberale e della necessaria riforma del capitalismo e dell’economia globale. Testimonia dell’intelligenza dell’uomo, che da uno dei templi finanziari di quell’economia globale proviene, ma che capisce che i tempi nuovi e drammatici che tutti stiamo vivendo richiedono idee e politiche nuove e coraggiose. Riformare il capitalismo globale è fondamentale innanzitutto per i cittadini di Europa e Stati Uniti, che più sono stati colpiti in questi decenni dalle conseguenze (impreviste o sottovalutate) delle regole che hanno reso sempre più complicata la convivenza delle ragioni della democrazia e del capitalismo. La rinuncia a un governo efficace di iperglobalizzazione e rivoluzione tecnologica ha prodotto il progressivo e sempre più rapido impoverimento dei ceti medi e popolari dell’Occidente, che la pandemia rischia di far precipitare ulteriormente. Solo le democrazie hanno questo problema, il trilemma insolubile di Rodrik (globalizzazione, democrazia, sovranità), e solo da loro, dalle due sponde dell’Atlantico, può partire lo sforzo comune per quella gigantesca operazione di riforma che è necessaria. Non significa il ritorno del protezionismo aggressivo e inconcludente di Donald Trump o del sovranismo autoritario di Orban e Kaczynski. Si tratta invece di riportare la vigilanza e la leadership sull’economia globale ai governi, che possono riuscirci in maniera cooperativa, attraverso le istituzioni internazionali e nel nome dei principi democratici, oppure fallire in modo conflittuale, affondando le istituzioni e cercando ognuno di scaricare il fardello sulle spalle altrui.


L’alternativa è un rilancio del globalismo tecnologico alla cinese: fatto di suadenti inviti a una nuova era di prosperità comune, dove ognuno, nel nome della non interferenza reciproca e delle rispettive “tradizioni nazionali” possa continuare a espellere gli esponenti politici non graditi dai Parlamenti (come a Hong Kong) e a commerciare con gli altri, sfruttando la propria e l’altrui manodopera (per esempio in Africa) come meglio crede. Nessuno farà domande scomode, nessuno disturberà il manovratore. Paradossale che la Cina sia oggi l’alfiere del libero mercato globale? Mica tanto. La Regional Comprehensive Economic Partnership, lanciata da Pechino nelle scorse ore, ci ricorda semplicemente chi sta raccogliendo i frutti delle cattive regole che l’Occidente ha concepito in questi decenni: quando si illudeva di essere più forte politicamente e militarmente e di potersi dividere il lavoro con la Cina come più gli convenisse, sulla base di una superiorità tecnologica inscalfibile. Alla Cina, la “nostra” globalizzazione sta bene così, l’importante è solo che lei ne sia al comando. Ma a noi? Noi non abbiamo solo un problema di ruolo (leader o gregari), ma uno diverso e ben più cruciale per il nostro futuro: la riconciliazione nel XXI secolo di democrazia e mercato, alla quale solo una rinnovata partnership transatlantica può offrire una chance.

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