Marco Simoni

Elezioni Usa 2020, quell’orgoglio ritrovato e la funzione del giornalista

di Marco Simoni
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Sabato 7 Novembre 2020, 01:17 - Ultimo aggiornamento: 03:10

Era quasi l’una in Italia nella notte tra giovedì e venerdì quando, incapace comunque di staccarmi dai network americani che riportavano notizie dello spoglio, ho osservato come tanti il presidente Donald Trump che prendeva la parola in una conferenza alla Casa Bianca. Visibilmente provato, con un tono di voce meno spavaldo del solito, ha iniziato a inanellare una serie di affermazioni false, apodittiche, implausibili su brogli elettorali e una vittoria che gli stavano rubando. 


In fondo, era un copione – quello delle bugie di Trump, su cui esiste addirittura una lunghissima pagina wikipedia – a cui ci ha abituati da oltre quattro anni. Anzi, da prima, da quando si fece alfiere della campagna che sosteneva, con sprezzo della verità, che il presidente Obama non fosse nato in America. Con mia grande sorpresa, il canale che stavo seguendo ha interrotto la diretta per sottolineare che il presidente stava dicendo falsità. Altri network hanno immediatamente commentato con sdegno. 


Praticamente tutti i media americani hanno titolato sulle “bugie” di Donald Trump. A me è sembrato di svegliarmi da un lungo brutto sogno e, anche se temo non sarà né facile né breve il recupero della funzione fondamentale e mediatrice del giornalismo, in questi giorni stiamo assistendo a più di un segnale positivo in questa direzione.

Il ritorno a un mondo dove quando qualcuno dice falsità lo si smentisce subito e, se è un potente, lo si fa con l’autorevolezza della propria professione e della propria integrità.


L’effetto della falsa disintermediazione dei social media era diventato chiaro con drammaticità quattro anni fa. Si cominciò con il referendum sulla Brexit, che fu vinto a suon di propaganda così falsa da aver fatto poi pentire migliaia di elettori. Era poi proseguito con l’elezione di Trump, la cui fortuna era dipesa in maniera cruciale dagli “Ingegneri del Caos” titolo del libro-cult di Giuliano Da Empoli tradotto in tutto il mondo e guida fondamentale per comprendere i meccanismi tecnici, politici e psicologici con cui si è affermata negli scorsi anni la possibilità di «sostenere qualunque posizione, sensata o balorda, realistica o intergalattica, purché intercetti le aspirazioni e le paure – soprattutto le paure – dell’elettore».


Ecco: sembra che ora questo ingranaggio spiegato da Da Empoli si sia iniziato a inceppare. Da qualche tempo Twitter ha iniziato a segnalare come implausibili molti messaggi dello stesso Trump, a tal punto che, mentre scrivo, cinque degli ultimi dieci messaggi di Trump su Twitter sono oscurati.

Questo comportamento però è l’ammissione di qualcosa che avevamo già capito: le piattaforme social non sono neutre perché l’effetto a rete, moltiplicativo, di diffusione che esse generano gli conferisce di fatto responsabilità editoriali. Non sarà semplice regolare queste responsabilità, ma il tema è chiaramente all’ordine del giorno e non potrà essere lasciato alla buona volontà di quattro grandi aziende. 


Tuttavia, non si può capire cosa è successo negli scorsi dieci anni solamente prendendosela con i social media perché, come mostra bene Luca Sofri nel suo decennale reporting sulle “notizie che non lo erano”, i principali originatori di notizie false sono stati gli “old” media, sia quando hanno riportato in maniera superficiale notizie non verificate o dicerie, ma soprattutto quando hanno dato dignità ad affermazioni palesemente false e implausibili, come se non fosse loro piena responsabilità evitare che tale dignità fosse conferita. Così le notizie false generate nei media tradizionali venivano poi diffuse grazie ai social: a ognuno un pezzo di responsabilità, a ognuno una riflessione sui cambiamenti necessari.


Vorrei essere chiaro: qua non si punta l’indice contro nessuno, perché l’effetto che internet e i social media ha avuto sull’industria editoriale è stato così violento e rapido da aver generato inevitabilmente delle reazioni sbagliate e imperfette in aziende che hanno dovuto conoscere una trasformazione anche dolorosa. 
Gli stessi social media hanno trasformato il mondo senza alcun piano o riflessione preventiva, è stata una rivoluzione che ha trovato tutti impreparati.


Rimane il fatto che abbiamo imparato in questi anni che del giornalismo mediatore le democrazie non possono fare a meno. Ristrutturato, ripensato, adattato, possiamo scegliere il participio che preferiamo per parlare del nuovo giornalismo, ma la funzione di protezione del terreno comune su cui si muove l’opinione pubblica è lo stesso: non cambia. E, come mostra in queste ore lo scarsissimo mordente che hanno le falsità di Trump sui brogli, se i media tradizionali ritrovano il loro orgoglio, anche sui social le bugie tornano ad avere gambe corte. 

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