Carlo Nordio
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Questione di parole/ Il passaporto vaccinale, un requisito non un obbligo

di Carlo Nordio
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Lunedì 19 Luglio 2021, 00:09

Le parole talvolta sono astrazioni speculative, ma in genere rappresentano delle realtà. Per questo, come insegnava Pascal, bisogna metterci d’accordo sul loro significato. Così dovrebbe essere per il “green pass”, che da molti è considerato un obbligo: termine che evoca un’odiosa, o comunque sgradevole, limitazione di libertà. Ma è proprio così? 


L’obbligo può essere considerato sotto varie prospettive: in senso filosofico è definito come la determinazione specifica di un dovere; in senso giuridico è un vincolo che impone una prestazione, nascente da un contratto, o da un fatto illecito, o da un’esigenza primaria dello Stato, come le imposte o la sacra difesa della Patria; per il credente è un ossequio a un comando della divinità; infine per il laico che si ispiri alla morale kantiana è un imperativo autonomo. In tutti i casi, l’obbligo è un impegno con un interlocutore definito: il creditore, lo Stato, Dio, o la propria coscienza. 


A differenza dell’obbligo, il requisito è una qualità necessaria per raggiungere uno scopo. Non è un dovere, ma una condizione. E il primo equivoco nella polemica sul “green pass” nasce proprio dall’uso dei due termini che spesso si confondono anche nel linguaggio corrente: ad esempio, l’obbligo di lenti per l’automobilista miope non è affatto un obbligo, ma semplicemente la conseguenza della scelta di guidare. Se ci vedi male, nessuno ti costringe ad andare dall’oculista, ma se vuoi metterti al volante devi vederci bene, altrimenti combini disastri. 
Un secondo equivoco nasce dal concetto di libertà personale. E’ quasi banale dire che la mia libertà finisce dove comincia quella altrui. Poiché siamo animali sociali dobbiamo darci delle regole, senza le quali la libertà diventa licenza, e quest’ultima sopruso. Così la mia libertà di parola, di movimento e di fede religiosa non comprendono quella di offendere, o di entrare arbitrariamente in casa altrui, o di celebrare indecenti ritualità dionisiache. 


Del resto la nostra Costituzione, proprio nel suo nocciolo duro, fissa i limiti di queste facoltà. Come gli dei di Omero, toglie in parte con la sinistra quello che concede con la destra, consapevole che non c’è libertà senza il controllo della legge: “sub lege libertas”. 
Posto così il problema, il “green pass” è un obbligo o un requisito? A noi la soluzione sembra facile: non può essere un obbligo per la semplice ragione che non vincola nessuno nei confronti di un interlocutore definito, sia esso il creditore, lo Stato, o la coscienza.

Se un cittadino vuole starsene a casa e condurre una vita anacoretica, può farne benissimo a meno. E’ quando si relaziona con gli altri, che sorge il problema, esattamente come quando vuol prendere la patente e deve assicurarci di guidare in sicurezza, e se necessario mettersi gli occhiali. 


Nel caso specifico, la libertà in gioco non è affatto quella di chi deve munirsi di “green pass”, ma quella degli ignari individui che lui accosta e che può contagiare. Insomma, se Caio entra in aereo con me senza una garanzia di immunità, è la mia libertà dalla malattia ad essere compromessa, non la sua. Ecco perché il “green pass”, dunque, non è un obbligo ma un requisito. 
Naturalmente l’obiezione a questo discorso, apparentemente teorico, è che a Tizio non importa nulla definire il pass in un modo o nell’altro, ma solo sapere se deve averlo oppure no per andare al ristorante, o a teatro, o altrove. Tuttavia, una volta stabilita la natura di questo certificato la risposta è facile: come tutti i requisiti, è oggetto di valutazione prudente e razionale da parte del legislatore; se è giusto chiedere al conducente l’esame della vista, sarebbe assurdo imporgli anche quello del colesterolo. 


Così è per il “green pass”. Esso deve essere considerato un requisito tanto più cogente quanto più il luogo di accesso è a rischio di contagio. Sarebbe esagerato chiederlo per sedersi all’aperto, ma sarebbe insensato non imporlo per un concerto alla Scala.


E questo ci porta a un’ultima considerazione. Questo piccolo “sacrificio” che si chiede al cittadino avrebbe una enorme importanza per la nostra vita e le nostre finanze. Per far l’esempio del teatro, una cosa è occupare un posto su dieci per il distanziamento obbligato, un’altra è riempirlo di spettatori che non possono né contagiare né essere a loro volta contagiati. E così per mille altre attività. 


E poiché il Paese non potrebbe sostenere un’altra altalena di zone bianche e rosse, e tanto meno un ulteriore rigido lockdown, anche le perplessità degli ultraliberisti dovrebbero cadere di fronte al rischio che cada, di nuovo e forse definitivamente, la nostra economia.

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