Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

Oltre il Concilio/ Politica e cattolici: le ragioni di una crisi

di Luca Diotallevi
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Mercoledì 12 Ottobre 2022, 00:19

Mentre la recente campagna elettorale vedeva riaccendersi il dibattito sulla “questione cattolica”, il calendario, inesorabile, è arrivato all’11 ottobre, ieri. In questa data, 60 anni fa, a Roma si apriva solennemente il Concilio Ecumenico Vaticano II. Questo evento si offre come cornice appropriata per una riflessione sullo stato dei rapporti tra cattolici e politica in Italia, e non solo.
Il Vaticano II è stato più di una importante assise internazionale. A ragione è stato definito il primo evento effettivamente “globale”. Dal mondo intero al Concilio si convenne non in forma di piramide, ma di piazza. A radunarsi non furono rappresentanti di organizzazioni, come gli stati, ma voci di comunità ricche di differenze tra di loro e ciascuna al proprio interno. Preparato da oltre un secolo di ricerca e di sperimentazione (spesso pagata a caro prezzo), in tre anni di lavoro il Concilio mise in discussione rapporti di forza, modelli di prassi e schemi di pensiero radicati da secoli ed imprudentemente sacralizzati. Questo moto di riforma avvenne al massimo livello di ufficialità e di autorità concepibili nella Chiesa cattolica.

Come risultato, il Vaticano II ed il magistero di Paolo VI consegnarono alla Chiesa ed al mondo una sintesi inedita di cristianesimo e modernità. Offrirono punti di equilibrio tra Chiesa universale e Chiese particolari, tra fede e libertà, tra speranza e combattimento (interiore ed esteriore) tra via individuale e via istituzionale alla carità, tra liturgia e vita, tra Scritture e Tradizione. Contro ogni clericalismo riconobbero la pari dignità di ciascun battezzato; contro ogni fuorviante gerarchia tra stati di vita riconobbero la universale vocazione alla santità. Il Vaticano II e Paolo VI seppero leggere nella modernità una grande opportunità per la fede e per la Chiesa. Smascherarono tanto la menzogna di una assoluta ostilità della modernità nei confronti della fede e della Chiesa quanto la menzogna di una radicale inimicizia della Chiesa e della fede nei confronti della modernità. Paolo VI guidò la Chiesa a trovare al cuore della Tradizione l’antidoto ad ogni tradizionalismo. Ne risultò un equilibrio splendido, esigente e fragile. Si ebbe coscienza che con la modernità alla Chiesa ed ai cristiani era donata una grazia speciale, la quale, come è inevitabile nella logica evangelica, comportava costi sì sostenibili, ma eccezionali. Scriveva Paolo VI nella Ecclesiam suam, vero e proprio software dei lavori conciliari: «non molle e vile è il cristiano, ma fedele e forte» (n.28).

Come previsto da Papa Montini, concluso il Concilio i costi ingenti di un rinnovamento necessario e salutare non tardarono a mostrarsi. Non ci sono argomenti per dubitare della fedeltà al Vaticano II e della venerazione per Paolo VI di ciascun pontefice successivo: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco. Di pubblico dominio è però anche che quei pontificati cercarono, in modo del tutto legittimo, di ridurre i costi del rinnovamento, tentarono di perseguirlo a costi più bassi. Provarono così, ciascuno con una diversa miscela di fattori, a concedere qualcosa in più ai tradizionalisti, ad assumere qualche occasionale tono progressista (ad es. regredendo dalla libertà religiosa alla laicità), provarono a semplificare un poco le richieste della Chiesa a se stessa, a chiudere un occhio sulla condotta di soggetti che si muovevano sotto l’ombrello “cattolico”, ma con non poche insofferenze verso le ragioni e la sostanza della ecclesialità.
A Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio non può essere imputato il tracollo delle quantità di fedeli, beni, personale, prestigio e poteri delle organizzazioni ecclesiastiche.

Il processo era in atto da secoli e la sua accelerazione costante da ben prima di loro. Semmai, a quasi quarantacinque anni dalla morte di Paolo VI, appare chiaro che la Chiesa non ha tratto alcun vantaggio dagli sconti praticati a se stessa dopo il 1978.

Per giunta, a soffrire di quegli sconti non è stata solo la Chiesa cattolica. Tutto il movimento di libertà ed emancipazione sorto dall’incontro tra Vangelo e diritto romano non codificato (come disse Benedetto XVI a Berlino nel 2011), tutto il mondo delle “società aperte”, anche a causa della cattiva manutenzione della sintesi conciliare e montiniana si ritrova oggi quasi senz’anima di fronte all’aggressione di autocrazie, dittature e populismi di ogni colore, i quali nel frattempo hanno spregiudicatamente potenziato i propri arsenali religiosi non meno di quelli militari (dal “cristianismo” di Trump, Putin e Bolsonaro, ai fondamentalismi di matrice islamica o induista, allo strumentale ricorso al confucianesimo praticato dal Partito Comunista Cinese.)
Su questo sfondo il caso del rapporto tra cattolici e politica in Italia cessa di apparire una stranezza.
Nel nostro paese, per evidenti ragioni di ordine empirico, i cattolici e persino i “cattolici praticanti” continuano ad essere il frammento più grosso tanto degli elettori quanto degli eletti. Il punto è che si tratta di una presenza senza rilevanza, alla ricerca di visibilità invece che di leadership. 
Quanto questo dipenda da ignoranza della dottrina e quanto da opportunismo si potrà valutare caso per caso, ma è chiaro che siamo ben al disotto della soglia minima che il Vaticano II ed il magistero montiniano avevano indicato, tanto sul piano delle idee quanto su quello del coraggio e della fortezza richiesti. Serviva Fra Cristoforo, ma i cattolici italiani per decenni hanno provato a vedere se bastava don Abbondio. Come previsto, non è bastato; del resto “non molle e vile è il cristiano, ma fedele e forte”.

Tuttavia sarebbe fuorviante pensare che la crisi riguardi solo il rapporto tra cattolici e politica. Se guardiamo il continuo e svelto riposizionarsi di tanti nelle sagrestie, nelle curie e nei sacri palazzi – bergogliani oggi, ratzingeriani ieri, woytjliani ieri l’altro –, ci accorgiamo subito che anche in quei luoghi abbondano i don Abbondio e scarseggiano i Fra Cristoforo. Quanti sono oggi i Rosmini, gli Sturzo, i Montini che sanno obbedire senza adulare, che sanno servire senza compiacere? Quanti sono oggi i cattolici che, come De Gasperi, saprebbero dire “no” ad un Pio XII che voleva dettare soluzioni costituzionali reazionarie ed alleanze politiche pericolose? Politici cattolici che poi, come De Gasperi, sappiano anche vincere, visto che in politica conta anche vincere.
Testimonianze come quelle di De Gasperi e di Montini sono preziose anche perché sgomberano il campo da un ultimo abusatissimo alibi. In politica l’uno e nella assise conciliare l’altro, in principio erano alla testa di sparute minoranze. La qualità della loro visione e la forza della loro condotta hanno prodotto il consenso, non viceversa. La scomparsa della Dc non è la causa della irrilevanza dei cattolici in politica. E’ la irrilevanza politica di cattolici in abbondanza fiacchi e confusi che concorre al difetto di qualità tanto del centro-destra quanto del centro-sinistra italiani.
Il magistero del Vaticano II non è affatto complicato, semmai è esigente. La modernità non è una maledizione, semmai una opportunità preziosa. A 60 anni dal Vaticano II la situazione del cattolicesimo italiano è drammatica, ma non irreversibile; ad una condizione: «Non molle e vile è il cristiano, ma fedele e forte».

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