Welfare, investire sui dipendenti fa bene all'impresa

Il nuovo welfare è sintesi tra pubblico e privato

Welfare, investire sui dipendenti fa bene all'impresa
di Osvaldo De Paolini
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Venerdì 28 Aprile 2023, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 19 Maggio, 15:31

Il welfare aziendale fa bene alle aziende. E fa bene al welfare del Paese. La virtuosa correlazione tra piani di welfare e performance dell’impresa che li adotta, è stata illustrata e dimostrata da molte ricerche, non ultimo l’annuale Rapporto Welfare Index Pmi. Subito dopo il Covid, a fronte del fenomeno delle “grandi dimissioni” – in Italia non così clamoroso, rispetto a quanto accade negli Stati Uniti – si è compreso che le politiche di welfare aziendale sono un fattore potente di attrazione e di permanenza nei luoghi di lavoro. Per paradosso, sempre meno raramente più della busta-paga può l’offerta di benefit che possano rendere l’azienda che li propone il miglior luogo dove prestare la propria opera. È una declinazione di quella “sostenibilità” che oggi ci obbliga a rivedere criteri e indirizzi nelle attività economiche e sociali. Sicché il primo ambiente, forse ancor prima di quello domestico, dove è richiesta un’adeguata qualità della vita è proprio il luogo di lavoro. Per questo da alcuni la parola “welfare” si coniuga spesso con “wellbeing”. Il benessere oltre la protezione. O addirittura prima della tradizionale protezione sociale: sì alla previdenza, ma prima viene la salute nel senso più ampio, quella fisica e quella psicologica. Perché benessere vuol dire “stare bene”, in tutti i sensi. Ma vuole anche dire motivazione, identificazione con i valori dell’azienda. Ed ecco che il sistema dei criteri Esg non orienta più solo la relazione tra impresa e mercato, e nemmeno solo quella tra impresa e investitori; ma qualifica anzitutto il rapporto tra impresa e collaboratori, perché contro ogni luogo comune un numero crescente di dipendenti vuole essere parte di un’avventura imprenditoriale in cui potersi riconoscere. È un ritorno al “Modello Ivrea” che rese famoso Adriano Olivetti? Certamente la sua profezia oggi è sempre meno utopia, e contamina molti dei sistemi di relazioni industriali e di politiche del personale, che non a caso sempre più viene indicato come “risorsa primaria” nei bilanci aziendali. Non vi è dunque dubbio sui benefici che il welfare aziendale porta alle realtà che vi fanno ricorso. E se è provato che fa bene alle aziende, fa bene al welfare stesso. O meglio, al “nuovo welfare” che si segnala per questa maggiore attenzione ai “nuovi bisogni” di chi lavora e delle loro famiglie, che così possono proiettare il loro benessere sulla comunità e sul territorio. 

IL NUOVO WELFARE

Ma il nuovo welfare - lo tocchiamo ogni giorno con mano - non può più essere solo welfare state, perché sempre più è welfare pubblico-privato. È una delle evidenze oggettive nella “nuova sanità”: non esiste più una sanità pubblica che non tenga conto della sanità privata integrativa. Anche in questo caso il “debito” con il welfare aziendale è alto. Aziendale in senso lato, cioè mediato dai rapporti che penetrano il mondo del lavoro (quindi sia dai contratti nazionali di categoria sia da quelli aziendali di secondo livello). Il boom della sanità integrativa lo si deve in gran parte a questo motore: il welfare contrattuale. Bisogna però ottimizzare le tante risorse pubbliche - sono decine i bonus di cui possono godere gli italiani su materie in qualche modo riconducibili al sistema di protezione sociale - che potrebbero in qualche modo integrare quelle private. Ci sono soggetti imprenditoriali che si prefiggono proprio di migliorare il “take-up” delle politiche pubbliche per favorire i lavoratori (le loro retribuzioni complessive, sotto diverse forme) e le aziende. Ancora una volta un incrocio virtuoso tra pubblico e privato. La consapevolezza politica non manca. Nel discorso di insediamento del nuovo governo, la premier Giorgia Meloni – per la prima volta nella storia dei discorsi inaugurali di un governo alle Camere – riferendosi alla necessità di intervenire con misure volte ad accrescere il reddito disponibile delle famiglie, aveva indicato l’intenzione di ridurre le imposte sui premi di produttività procedendo «dall’innalzamento ulteriore della soglia di esenzione dei cosiddetti fringe benefit e dal potenziamento del welfare aziendale». Molti si attendono una traduzione pratica del principio riconosciuto. Nulla però si è visto nella Legge di Bilancio, nulla nel Milleproroghe; probabilmente nulla ci sarà nell’imminente Decreto Lavoro. Ma si attende presto un atto normativo coerente. Le buone norme derivano quasi sempre da buoni monitoraggi. Ce ne sono ormai molti promossi da soggetti privati – Unipol, Generali, Intesa Sanpaolo, molti provider – manca un osservatorio pubblico, istituzionale. Necessario per poter indirizzare le nuove politiche di welfare integrativo e aziendale fuori dalle semplici intuizioni o segnalazioni. Se è vero che il 70% dei contratti di secondo livello delle imprese italiane prevede ormai qualche forma di welfare aziendale, è anche vero che è difficile sapere quante risorse vengono impegnate in questi settori. Solo la previdenza complementare è monitorata strutturalmente. Tutto il resto sfugge a una misurazione certa e inconfutabile. Anche per questo la proposta che lancia Tiziano Treu, negli ultimi giorni al vertice del Cnel, può essere presa come un testimone da trasmettere a chi lo seguirà alla presidenza: Renato Brunetta, economista attento da sempre al mondo del lavoro e alle sue dinamiche.

Il “suo” Cnel potrà colmare una lacuna lasciata dal suo predecessore?

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