Sud penalizzato da salari bassi e inflazione, denatalità e talenti in fuga: così rischia di svuotarsi

Nel 2080 perderà otto milioni di abitanti diventando l’area più vecchia del Paese

Sud penalizzato da salari bassi e inflazione, denatalità e talenti in fuga: così rischia di svuotarsi
di Luca Cifoni
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Mercoledì 6 Dicembre 2023, 00:43 - Ultimo aggiornamento: 10:31

Il Mezzogiorno è uscito dalla crisi pandemica più o meno alla stessa velocità del resto del Paese. Ma già quest’anno dovrebbe sperimentare una crescita più bassa, a causa del maggior impatto dell’inflazione sui consumi. Le nuvole però si addensano soprattutto sui decenni futuri, quando Sud e Isole rischiano di pagare più di tutti gli altri territori il peso della crisi demografica, sotto forma di denatalità e di fuga dei giovani (in gran parte laureati).

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Intanto i divari territoriali lambiscono anche le aree del Centro, che dopo aver recuperato meno brillantemente la caduta del Covid potrebbero arrancare nel 2024, seppur in un contesto di crescita debole per l’intero Paese. Il rapporto Svimez presentato ieri a Roma è il cinquantesimo della serie e l’occasione storica ha permesso di ricordare le analisi del grande meridionalista Pasquale Saraceno.

Alcune delle quali appaiono ancora tristemente attuali.


IL BIENNIO
I dati li ha illustrati il direttore generale Luca Bianchi, alla presenza del presidente Adriano Giannola e del ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto. L’allineamento di Sud e Isole con il resto d’Italia che ha caratterizzato il biennio 2021-2022 nasconde in realtà alcuni elementi di debolezza. Nelle Regioni meridionali a questa ripresa ha dato un contributo più limitato l’industria, con un ruolo relativamente maggiore invece per servizi e costruzioni. Mentre la tempesta dell’inflazione ha colpito e sta continuando a colpire le famiglie del Sud in modo più intenso, riducendone i redditi reali. Anche l’aumento dell’occupazione a Sud ha avuto caratteristiche diverse e meno favorevoli ed è stato accompagnato dall’incremento della povertà: vuol dire che il lavoro da solo non basta, perché spesso è “povero”; per le basse retribuzioni ma anche per la maggior diffusione del part time involontario, che incide a sua volta sul reddito riducendo le ore effettivamente lavorate.
L’impatto del caro-vita si farà sentire già quest’anno: per l’economia nazionale è attesa una crescita dello 0,7 per cento, che però è il risultato di valori leggermente più alti a Nord-Ovest e Nord-Est e di un modesto +0,4 per cento del Mezzogiorno. La divaricazione è causata dai consumi più fiacchi in questi territori, proprio a causa dell’inflazione. Nel 2024 la dinamica del Pil si manterrebbe contenuta più o meno dappertutto, con una certa debolezza del Centro (0,5 per cento rispetto allo 0,7) mentre l’anno successivo, a fronte di una discreta accelerazione complessiva si riaprirebbe anche il divario tra Nord e Sud. Sud che però dovrebbe riuscire ad evitare la recessione grazie alla spinta del Pnrr.


IL PASSAGGIO
Ma cosa succederà dopo? Il rapporto dedica ampio spazio al tema della demografia: è una questione gravissima per tutto il Paese, ma che sta facendo sentire il suo impatto nei territori meridionali in maniera molto più intensa. Il calo della popolazione infatti non riguarda solo le cosiddette aree interne, ma anche i centri urbani; e manca l’effetto compensativo delle migrazioni, la capacità di attrarre residenti dall’estero. Così tra il 2011 e il 2023 Sud e Isole hanno già perso oltre un milione di abitanti, mentre al Centro-Nord la popolazione è rimasta più o meno costante. Ha pesato anche la fuga dei giovani: quelli che se ne vanno sono ormai per circa il 50 per cento laureati. Così nel 2080 il Mezzogiorno potrebbe ritrovarsi con oltre otto milioni di residenti, passando da area più giovane ad area più vecchia del Paese. Una tendenza che Svimez propone di contrastare aumentando il tasso di occupazione femminile e la scolarizzazione, in particolare a livello universitario.
 

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