Il “day after” nella grande battaglia del Mes porta, inevitabilmente, al nuovo anno. Ma la porta del dialogo con l’Europa non è chiusa; perlomeno non a doppia mandata. «Nei prossimi mesi continuerò il mio impegno con le autorità italiane su questo fronte», ha avuto cura di precisare il presidente dell’Eurogruppo, l’irlandese Paschal Donohoe, nella sua reazione a caldo dopo il voto con cui, giovedì scorso, la Camera dei deputati ha respinto la ratifica del trattato di riforma del Meccanismo europeo di stabilità, l’ex fondo salva-Stati diventato nel frattempo, con le modifiche ora rimaste al palo, una rete salva-banche in caso di crac a catena. È il massimo che i vertici dell’Eurozona dicono a microfoni accesi e taccuini aperti. Le (pochissime) bocche rimaste in forze alle istituzioni prima dell’imminente pausa di fine anno sono cucite, attente a evitare ogni escalation. A prevalere, dopo il blitz che ha portato alla bocciatura di Montecitorio, sono rammarico, amarezza e disorientamento; si tratta, del resto, di uno scontro frontale in cui pochi, a Bruxelles come a Lussemburgo (dove il Mes ha sede), credevano davvero. Ma c’è anche il proposito costruttivo di non creare strappi impossibili da ricucire con l’Italia, o di spingere ai margini la terza economia della zona euro, escludendola da una riedizione del Mes.
LE ELEZIONI
Uno scenario da scongiurare con attenzione, soprattutto in un momento in cui le divisioni tengono già in ostaggio l’Unione (vedi alla voce Ungheria di Viktor Orbán) e le alleanze “con chi ci sta” non decollano, mentre alle porte è invece un anno elettorale, chiamato a delineare il nuovo volto delle istituzioni comuni.
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Questa situazione, insomma, crea poco appetito per una riforma della riforma, cioè un accantonamento dell’attuale revisione del Mes per sfornare un nuovo testo, che i 19 vedrebbero come una capitolazione senza condizioni davanti a un solo Stato membro; uno che, oltretutto, è stato storicamente tra i più attivi nel sostenere la necessità del completamento dell’Unione bancaria (che, con il “backstop” per gli istituti di credito, rientra tra i propositi del nuovo Mes). Sul tavolo rimane così una suggestione evocata regolarmente quando l’Europa non riesce a decidere all’unanimità: la strada dell’accordo tra gruppi di Stati volenterosi. Le cooperazioni “a scartamento ridotto”, con un’Europa in miniatura che pur di superare un incidente di percorso opera al di fuori dell’assetto istituzionale (che sia Ue o, come in questo caso, Eurozona), appassionano poco e rimangono l’ultima spiaggia per Bruxelles, che si troverebbe costretta ad ammettere i limiti dell’azione comune.
IL CASO UNGHERIA
Un’opzione simile, ad esempio, era finita sul tavolo del summit dei leader, dieci giorni fa, come stratagemma per superare il veto ungherese nella procedura di revisione del budget pluriennale, in modo da deliberare a 26 il pacchetto di 50 miliardi di euro destinato all’Ucraina: sembrava quasi fatta, ma alla fine il piano si è arenato ed è prevalsa la volontà di guadagnare altro tempo e di rinviare tutto di una manciata di settimane, al 1° febbraio, nella speranza di una svolta. Gli attuali accordi bilaterali di “backstop” tra il Mes e gli Stati scadono il 31 dicembre, e un sì tempestivo prima di fine anno avrebbe evitato ogni discontinuità; ma il completamento della ratifica non ha nessuna scadenza formale, al netto del fatto che, dopo la bocciatura della Camera, lo stesso testo non potrà, da regolamento interno, essere presentato prima di sei mesi. Cioè dopo le europee. Tra tattica politico-diplomatica e dialogo mai interrotto, è lo schema da cui ripartirà la saga del Mes.