Delocalizzazioni, mini-multe per le imprese che lasciano: licenziamenti costeranno di più

Delocalizzazioni, mini-multe per le imprese che lasciano: licenziamenti costeranno di più
di Giusy Franzese
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Mercoledì 29 Settembre 2021, 07:33

Le bozze ormai si moltiplicano giorno dopo giorno. In un continuo andirivieni tra i tecnici incaricati dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, e quelli del titolare dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti. Ma è altamente improbabile che oggi sul tavolo del Consiglio dei Ministri arrivi un testo da esaminare. D'altronde Draghi lo aveva detto in conferenza stampa il 2 settembre: quella sulle delocalizzazioni è una «norma complessa, perché deve essere efficace, realistica».

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Delocalizzazioni, mini-multe per le imprese che lasciano


Il tema resta particolarmente delicato: come convincere le multinazionali a investire e soprattutto a restare in Italia? Meglio il bastone con sanzioni e richieste risarcitorie soprattutto nei confronti di chi ha usufruito di finanziamenti pubblici, oppure meglio la carota con incentivi e agevolazioni per chi arriva e resta? Nell'ultima bozza è confermato che non ci saranno black list e mega sanzioni.

Ma procedure più puntuali (e più lunghe) per chi vuole dismettere, con una serie di paletti temporali.


IL TICKET

La proposta del Lavoro di moltiplicare per sei l'attuale ticket sui licenziamenti collettivi che le aziende devono pagare per ogni dipendente, non è passata. Il contributo dovrebbe essere incrementato di due volte, ma solo nel caso l'azienda non ottemperi alla procedura di raffreddamento rafforzata (una fase in più rispetto a quella della legge 223 del 91 con l'intervento anche delle istituzioni locali e nazionali) prevista nello stesso provvedimento e non si adoperi per la ricerca di un nuovo investitore che le subentri. In base a questa versione, quindi, l'azienda che chiude i cancelli della fabbrica non perché la produzione sia in crisi e gli ordini latitano, ma soltanto perché è più conveniente spostare il tutto all'estero, pagherà un ticket doppio. Ovvero, a seconda dell'anzianità aziendale, una cifra compresa tra i duemila e poco più di seimila euro a dipendente. Ricordiamo che la platea delle nuove norme è rappresentata dalle imprese con almeno 250 dipendenti complessivi (anche divisi in più unità produttive) non in crisi economica.


LA DIRETTIVA

Giorgetti insiste: per convincere gli imprenditori stranieri a investire in Italia e restarci servono «condizioni più favorevoli e un contesto credibile». Per dare corpo alla sua posizione, il ministro ha già fatto un piccolo passo. Significativo però. Ad agosto scorso ha inviato alle direzioni generali del suo ministero e ai viceministri Todde e Pichetto Fratin, una direttiva che ha per oggetto la clausola di preferenza per le assunzioni di lavoratori di aziende in crisi. In sintesi le aziende che assumono pescando tra gli esuberi dei «percettori di interventi di sostegno al reddito» o tra i disoccupati «a seguito di procedure di licenziamento collettivo» o tra «i lavoratori delle aziende del territorio di riferimento coinvolte nei tavoli di crisi al Mise», godranno di una corsia preferenziale per l'erogazione di incentivi, agevolazioni o misure di sostegno a valere sui fondi del Mise. Una clausola che potrebbe essere d'aiuto anche nella vertenza Whirlpool a Napoli, che finalmente sembra essersi incamminata verso una soluzione con l'ingresso di sette aziende consorziate per la nascita di un hub della mobilità sostenibile.


IL PRESSING

I sindacati alle prese con vertenze simbolo, come la Gkn di Campi Bisenzio, premono affinché siano varate al più presto nuove norme. La Confindustria frena. Le elezioni amministrative alle porte non aiutano perché rischiano di far entrare anche questo argomento nel tritarcarne della propaganda elettorale. Pd e Cinquestelle spingono per un testo con sanzioni pesanti. Lega e Forza Italia sono schierate sulla carota. Trovare una sintesi è decisamente complesso, come ha potuto constatare il professore Francesco Giavazzi incaricato direttamente dal premier di sbrogliare la matassa. Non è un caso se il premier ha volutamente evitato l'argomento nel suo lungo e applaudito intervento all'assemblea di Confindustria la settimana scorsa. Nel frattempo il decreto (che forse potrebbe diventare un emendamento a un provvedimento già all'esame del Parlamento) sta già cambiando nome, non più anti-delocalizzazioni ma quello più rassicurante di «responsabilità sociale dell'impresa».
 

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