Pensioni legati al Pil: va bene allo Stato, meno al lavoratore

ll sistema contributivo con l’andamento sempre più declinante dell’economia del nostro Paese ha penalizzato la rivalutazione dei contributi versati

Pensioni legati al Pil: va bene allo Stato, meno al lavoratore
di Luca Cifoni
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Mercoledì 6 Settembre 2023, 12:09 - Ultimo aggiornamento: 7 Settembre, 06:00

Quando vide la luce, fu salutata come una riforma epocale: ed effettivamente la legge del 1995 passata alla storia con il nome dell'allora presidente del Consiglio Lamberto Dini aveva l'ambizione di rivedere in profondità il sistema previdenziale, rendendolo sostenibile nel lungo periodo.

Per la verità da allora in poi ci sono stati almeno altri due riassetti complessivi delle pensioni , senza contare svariati interventi minori. La legge Dini possiede però una caratteristica di fondo definita proprio per garantire nel tempo l'equilibrio dei conti: si tratta del legame tra spesa pensionistica e crescita dell'economia, misurata dalla variazione quinquennale del Pil. Questo è il tasso utilizzato per rivalutare ogni anno il montante dei contributi versati dai lavoratori. Montante che poi – nel sistema detto appunto contributivo – viene trasformato in rendita pensionistica attraverso specifici coefficienti legati all'indicatore demografico dell'aspettativa di vita. L'idea insomma è che lo Stato contenga le uscite previdenziali al livello che si può permettere.

IL CONTROLLO DELLA SPESA

 A distanza di oltre un quarto di secolo dall'entrata in vigore di quella riforma, e di circa dieci anni dall'applicazione del meccanismo contributivo a tutti i lavoratori (scattata nel 2012 con la legge Fornero ) è naturale chiedersi come siano andate le cose . In sintesi: sono andate abbastanza bene per le casse pubbliche, perché il contributivoinsieme alle altre riforme messe a punto a partire dagli altri Novanta ha permesso di tenere la spesa tutto sommato sotto controllo, pur se a un livello relativamente alto. In realtà gli effetti del riassetto del 1995 saranno ancora più evidenti nei prossimi anni, a mano a mano che il calcolo contributivo sarà applicato sull'intera vita lavorativa degli italiani (mentre attualmente incide solo su una quota delle pensioni che iniziano a essere pagate). Il bilancio è meno positivo per lavoratori e lavoratrici, che sempre di più si vedono calcolare almeno un pezzo di assegno con un criterio che tiene conto dell'andamento complessivo dell'economia. La verità è che quando il sistema fu progettato, in un contesto decisamente diverso come quello degli anni Novanta, si davano per scontati tassi di crescita del Pil che poi nel corso del tempo non si sono materializzati: sia per i problemi strutturali del nostro sistema produttivo sia per l'impatto devastante di crisi non attese, come quella finanziaria avviata nel 2008 e la violenta recessione indotta dal Covid. Per capire nel dettaglio cosa è successo bisogna guardare un po' più da vicino l'indicatore prescelto al suo tempo. Misura la variazione del Pil nominale, grandezza che comprende quindi l'effetto della crescita vera e propria ma anche quello dell'aumento (o rilasciato) dei prezzi. Siccome viene applicato anno dopo anno al montante dei contributi previdenziali versati da lavoratori e imprese, era stato opportunamente deciso di usare una media quinquennale, per attuare l'effetto di singoli anni molto negativi ed evitare quindi che un periodo di recessione provochi un assottigliamento, anziché una rivalutazione, del “gruzzolo” pensionistico. E tuttavia qualcosa del genere è successo, tanto che a metà dello scorso decennio il governo è stato costretto ad intervenire con una norma di legge, stabilendo che il rendimento non poteva essere negativo ma al massimo nullo, pari a zero. Circostanza che si è verificata poi anche per la rivalutazione relativa al 2020, in concomitanza con la crisi pandemica. stabilendo che il rendimento non poteva essere negativo ma al massimo nullo, pari a zero. Circostanza che si è verificata poi anche per la rivalutazione relativa al 2020, in concomitanza con la crisi pandemica. stabilendo che il rendimento non poteva essere negativo ma al massimo nullo, pari a zero. Circostanza che si è verificata poi anche per la rivalutazione relativa al 2020, in concomitanza con la crisi pandemica.

L’ANDAMENTO

Il problema però non è solo quello dei picchi negativi annuali.

La successione dei tassi dal 1996 in poi evidenzia il loro progressivo ridimensionamento. Se alla fine del secolo scorso viaggiavano ancora intorno al 5 per cento, dal decennio successivo hanno iniziato a ridursi in modo vistoso, attestandosi a ridosso del 3. Poi, dopo l’avvio della crisi finanziaria e una sequenza di zero virgola, l’indicatore è risalito verso un modesto due per cento nel 2019. Quindi il nuovo crollo e nessuna rivalutazione. Per il 2021 il valore si è fermato poco sotto l’1 per cento, con un’ulteriore limatura imposta dalla legge, la quale prevede che quando il tasso negativo viene fatto risalire a zero, la differenza per così dire regalata ai lavoratori sia poi recuperata gli anni successivi. A questo punto, con la tabella delle serie storiche sotto gli occhi, è possibile rendersi conto della rivalutazione dei contributi versati che si è effettivamente cumulata negli anni. Partendo proprio dal 1996 si mette insieme un 97 per cento all’apparenza robusto, da confrontare con un incremento del costo della vita che nello stesso arco di tempo ha sfiorato il 68 per cento. Il merito, come detto, è delle più sostanziose variazioni del Pil dei primi anni. Tuttavia, questo andamento riguarda solo coloro che proprio dal 1996 sono entrati nel mondo del lavoro vedendosi attribuire per legge – fin dalle prime retribuzioni – il calcolo contributivo puro. Per di più l’impatto favorevole è solo sui più esigui versamenti di inizio carriera. Spostando la linea di partenza un po’ più avanti, per esempio al 2004, il quadro cambia e non di poco. La rivalutazione del montante cumulata da allora a oggi si ferma a poco più del 34 per cento, dunque al di sotto dell’inflazione complessiva superiore al 41 per cento. Per la maggior parte degli italiani però la data spartiacque è un’altra, quel 2012 a partire dal quale, per decisione del governo allora guidato da Mario Monti, fu deciso di applicare a tutti il contributivo per la parte di carriera restante (sistema “misto”). Il decennio trascorso, nel quale ricadono proprio i due casi di rendimento nullo, è stato avaro di soddisfazioni per i lavoratori (nonché futuri pensionati): possono contare su un modesto 8 per cento di incremento dei contributi, a fronte di un’inflazione del 20. Dunque, non ne viene recuperata nemmeno la metà. A spiegare questa discrepanza c’è anche un importante dettaglio tecnico: è vero che il prodotto interno lordo nominale incorpora l’andamento dei prezzi, ma misurato non con l’indice dei prezzi al consumo ma tramite il cosiddetto “deflatore del Pil”: che non comprende le importazioni e dunque non dà conto degli aumenti dei costi dei beni e servizi che si sono scaricati sulle famiglie per questa via. Il montante contributivo che si accumula e viene rivalutato anno dopo anno si trasforma poi in trattamento pensionistico al momento dell’uscita dal mondo del lavoro: per chi ha il contributivo puro determina l’intero importo dell’assegno, per chi è nel “misto” solo una quota. La rata mensile sarà in proporzione più alta per chi va in pensione a un’età più alta, perché il capitale viene “spalmato” su un minor numero di anni di vita attesi. Dunque, anche le prospettive di sopravvivenza misurate dall’Istat influiscono sugli importi che saranno messi in pagamento.

LE INCERTEZZE

Cosa si può aspettare chi ha davanti a sé ancora diversi anni di lavoro? Le prospettive di crescita di lungo periodo della nostra economia non sono particolarmente incoraggianti, anche a causa degli andamenti demografici. E a questo elemento sfavorevole si aggiunge l'incertezza che penalizza tuttora le carriere professionali, rendendole discontinue se non povere. Ecco perché il problema dell'adeguatezza dei futuri trattamenti previdenziali è destinato a restare all'ordine del giorno. 

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