Vizi e paure che bloccano la crescita

di Marco Gervasoni
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Venerdì 7 Ottobre 2016, 10:02 - Ultimo aggiornamento: 10:04
Facile la battuta: il problema dello sviluppo è troppo importante per lasciarlo ai soli economisti. Facile ma vera. La mancata crescita del nostro Paese, un fenomeno ormai endemico, non può infatti essere risolto solo da economisti e imprenditori. Se le catene che frenano l’Italia sono di carattere produttivo, la loro origine va cercata in un orizzonte più vasto, che investe la mentalità degli italiani. Un popolo che nella storia è stato laborioso, legato a una profonda etica del lavoro, quasi incapace di sentire la fatica e psicologicamente solidissimo, perché forgiato da secoli di privazioni e di guerre - a testimoniare questa peculiarità sono pagine e pagine dell’emigrazione italiana all’estero, nell’Ottocento e nel Novecento.

Il culto del lavoro è stato poi alla base del cosiddetto miracolo economico, frutto di un insieme di fattori, ai cui primi posti stava la perseveranza degli italiani nel dedicarsi alla produzione. Questo approccio si sposava poi con alcune patologie felici: un rapporto elastico con le regole, una forte (e certo eccessiva) presenza della politica, il peso dei corpi intermedi.

Patologie che, tra il dopoguerra e gli anni Novanta del secolo scorso, produssero però effetti positivi, senz’altro sulla crescita del Paese. Poi a un certo punto tutto è svanito, le patologie si sono trasformate in virus, l’anarchismo creativo si è mutato in illegalità diffusa, la politica è diventata partitocrazia senza partiti, la società civile si è convertita in società delle corporazioni. Ed è cambiata anche la mentalità degli italiani: siamo diventati piagnoni, pessimisti e lamentosi. Il fatalismo, la vera forza degli immigrati che attraversavano i continenti, si ammazzavano di lavoro e si arricchivano, è diventata accettazione supina dell’esistente. Gli animal spirit sono stati frenati da un assistenzialismo nel corso dei decenni sempre più inegualitario quanto più la coperta si stringeva. 

E siamo entrati così nel nuovo secolo della globalizzazione con un armamentario mentale e psicologico inadatto ai tempi nuovi. Questi sono caratterizzati dal «rischio». È cosi che il grande sociologo tedesco Ulrich Beck definiva la società contemporanea, fondata sulla continua e rapida trasformazione dei valori e dei punti di riferimento: un percorso sempre costellato da un bivio che può condurre verso la riuscita o verso il fallimento. Ed è non a caso la paura del rischio quella sempre più spesso opposta ai grandi progetti: il timore che falliscano, che portino più danni che benefici, che siano occasione di ruberie e di malversazioni. Ma nella società contemporanea nulla è dato per certo, senza correre rischi non solo si sta fermi, ma si rotola all’indietro - e si costringono le giovani generazioni, ancora, ad emigrare, come illustra il rapporto Migrantes pubblicato ieri.

Ha ricordato Virman Cusenza, nel convegno sulla crescita di due giorni fa, che John Fitzgerald Kennedy amava dire: «Il conformismo è il carceriere della libertà e il nemico della crescita». Occorre perciò un cambio di mentalità. Assumere pienamente la sfida della globalizzazione e della «società degli individui», per citare un altro grande sociologo, Norbert Elias. Capire che solo dallo sforzo delle energie individuali, e dal senso di responsabilità, può esserci arricchimento collettivo. E non ascoltare le sirene della «deglobalizzazione», del protezionismo, della chiusura nazionale, che porterebbero solo diseguaglianze e miserie: anche quando esse vengono da quell’Inghilterra o da quell’America che hanno inventato l’individuo moderno. 
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