Nicoletta Romanazzi, mental coach dei giocatori di Lazio e Roma: «Vi svelo i segreti per il successo»

Nicoletta Romanazzi, mental coach dei giocatori di Lazio e Roma: «Vi svelo i segreti per il successo»
di Maria Lombardi
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Sabato 20 Gennaio 2024, 06:40 - Ultimo aggiornamento: 23 Gennaio, 15:14

In campo, all'ultimo derby dell'Olimpico, c'erano tre calciatori della sua "squadra". «Un romanista e due laziali». E per chi ha tifato? «Per tutti e tre. E prima della partita, li ho fatti respirare». La foto di Matìas Vecino Falero, centrocampista laziale, è sul sito di Nicoletta Romanazzi, la mental coach che ha collezionato in assoluto più medaglie, record e vittorie. Insieme a quella di Marcell Jacobs (oro alle Olimpiadi di Tokyo nei 100 metri e nella staffetta), che urla avvolto nel tricolore, del portiere della nazionale Gianluigi Donnarumma, di Martina Arduino, prima ballerina della Scala, di Alice Betto campionessa di triathlon, e Andrea Mari, fantino del Palio e di tanti altri ancora. Una bacheca di trionfi, degli sportivi e di Nicoletta.
L'altro laziale che lei segue è Luca Pellegrini, come lui stesso ha raccontato. E il romanista?
«Non posso dirlo, al momento è un segreto. Erano anni che speravo arrivassero da me calciatori della Roma».
Cosa fa esattamente un mental coach di campioni?
«Insegna a comprendere i propri meccanismi mentali. Aiuta a far emergere i talenti e le risorse di ciascuno, e a utilizzarle in modo vantaggioso, a gestire meglio le emozioni, ad accogliere limiti, paure e fragilità per farli diventare punti di forza. Non esistono dentro di noi parti sbagliate, ognuna ha uno scopo positivo. Dobbiamo imparare ad allearci anche con i nostri "sabotatori"».
Perché ha scelto di lavorare soprattutto con gli sportivi?
«Mi è sempre piaciuto lo sport, mi affascina quel tipo di mentalità sfidante, la disciplina e la determinazione che richiede ogni traguardo. Il coaching è un allenamento, non basta venire da me. La parte più grande del lavoro si fa a casa, eseguendo gli esercizi che assegno. Gli sportivi capiscono immediatamente quello che sto trasmettendo, lo mettono in pratica e i risultati arrivano velocemente. Quello che permette a questi ragazzi di raggiungere i risultati è il sogno, oltre che la disciplina. Ma seguo anche tante altre persone, dagli attori ai cantanti e ai manager».
Quante medaglie ha "vinto" alle Olimpiadi di Tokyo del 2020?
«I miei amici mi dicono: sei la persona che da Tokyo ha portato a casa più medaglie. Quattro in tutto: tre ori con Jacobs nell'atletica, e con Luigi Busà, nel karate. E il bronzo con Viviana Bottaro, altra karateka. Lei si era rotta la tibia e il perone, le sembrava impossibile salire sul podio a Tokyo, e invece ce l'ha fatta. Quando si sentiva disperata, la riportavo alla forza del suo sogno. Se all'obiettivo personale si aggiunge uno scopo superiore, ossia far del bene anche agli altri, il sogno dell'atleta diventa potentissimo. Ai ragazzi in partenza per Tokyo ho detto: andate a prendervi le vostre medaglie e impegnatevi anche a risollevare l'orgoglio nazionale».
Nei successi di Jacobs, ha detto lui stesso, il suo aiuto è stato fondamentale. In che modo?
«Abbiamo lavorato sul lasciare andare la paura del giudizio degli altri che mentalmente e fisicamente lo bloccava».
Come è arrivata al mental coaching?
«Da piccola non sapevo cosa volevo fare, mi piaceva fissare le persone convinta che potessi trasmettere il mio pensiero. Mio papà aveva un'azienda metalmeccanica importante, ho tentato di studiare Economia, ho lavorato 9 anni in azienda ma non era la mia strada. Poi, grazie al mio ex marito, ho iniziato, 22 anni fa, un corso di formazione per mental coach. È stato amore a prima vista, mi sono buttata a capofitto».
Il suo prossimo traguardo?
«Tutta la mia storia è un traguardo. Avevo la famiglia contro, mi prendevano in giro perché dicevano che questa professione non esisteva. Ho cambiato tante città, sono stata impegnata a fare la mamma di tre figlie, adesso le gemelle hanno 27 anni e lavorano con me, la piccola ne ha 24. Ho incontrato tante difficoltà, ma non mi sono mai lasciata abbattere e non ho mai smesso di formarmi. La prima regola, dico sempre agli allievi della mia scuola di coaching, è non smettere mai di lavorare su sé stessi».
Ha incontrato resistenze o pregiudizi nel suo percorso?
«Gli ambienti sportivi, le federazioni in particolare, qualche volta mi hanno chiusa la porta e hanno avuto difficoltà ad accogliermi».
Nel suo ultimo libro "La sfida delle emozioni" (Longanesi) lei sottolinea l'importanza della propria parte femminile. In cosa è diverso, se lo è, allenare un uomo o una donna?
«Le donne tendono ad essere più in contatto con le proprie emozioni, un grande vantaggio se si è capaci di gestirle e uno svantaggio in caso contrario. Quando lavoro con gli uomini, cerco di far emergere la loro parte femminile legata all'intelligenza emotiva, alla creatività nel costruire il sogno, all'intuito, alla flessibilità e l'ascolto. Poi però c'è bisogno del maschile, che è più concretezza, azione, disciplina. Mi sto rendendo conto che in questo momento, nel mondo, c'è la tendenza ad escludere le emozioni, ed è pericolosissimo».
Allenare la mente, come si allena il corpo, lavorare sulle emozioni, servirebbe anche a prevenire la violenza.
«Bisogna far capire in tutti i modi quanto è importante il lavoro su sé stessi. La violenza, in particolare quella sulle donne, nasconde una grande fragilità, la paura e l'incapacità di accettare un "no" perché significherebbe sentire di aver perso il proprio valore o la propria identità. Si dovrebbe portare il coaching nelle scuole come strumento di prevenzione della violenza. O farlo arrivare a più persone possibile attraverso altri strumenti, come i podcast, o con campagne con i campioni a fare da testimonial».

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