All’indomani della sentenza d’Appello che ha confermato la condanna inflitta già in primo grado a Simone Santoleri a 27 anni di reclusione per l’omicidio e la soppressione del cadavere della mamma, la pittrice teatina Renata Rapposelli, si scopre che dal carcere di Pescara, dove proprio Simone era detenuto fino alla scorsa settima, smentiscono il suo tentativo di suicidio. L’episodio è avvenuto il 7 dicembre, ma dal penitenziario nessuno ha dato la tempestiva comunicazione né al suo legale, né tanto meno al garante regionale dei detenuti o alla compagna di Simone, il cui nome è stato indicato per tutte le comunicazioni.
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Oggi, dopo molte insistenze, chi di dovere è venuto a conoscenza direttamente dalla direttrice del carcere di Pescara che, agli atti, non risulta un tentativo di suicidio, ma si parla, è scritto tutto nero su bianco, di «ingestione di farmaci non identificati».
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Il difensore di Simone è pronto ad impugnare il trasferimento, ma prima bisogna capire perché sia stato fatto. A quanto pare è stato Simone stesso a farne richiesta, ma un anno fa, per incompatibilità con altri detenuti come oggi scrive la direttrice del penitenziario al garante, e in seguito ad un episodio di aggressione da parte di un altro detenuto marocchino. Richiesta che, come previsto dall’ordinamento penitenziario, eventualmente sarebbe dovuta essere accolta subito e non adesso a distanza di tutto questo tempo quando ormai Simone si era più che ambientato, lì aveva iniziato gli studi universitari e fino all’altro giorno aveva persino il giudizio in secondo grado ancora in corso nella stessa regione oltre ad avere il difensore. Tutti elementi che non consentono il trasferimento senza un giustificato motivo. Adesso, in attesa di conoscere le motivazioni dell’Appello per il ricorso in Cassazione, quello che preoccupa di più è lo stato psicologico di Simone che dopo aver lasciato il penitenziario di Pescara sta molto giù «perché ormai lì si sentiva come a casa», conferma il difensore.