L’AQUILA - “Le maschere sono espressioni fermate nel tempo e mirabili echi del sentimento: fedeli, discrete e meravigliose al tempo stesso. Le cose viventi al contatto dell’aria devono acquistare una pellicola, e nessuno se la prende con le pellicole se non hanno un’anima. Ci sono invece dei filosofi che se la prendono con le immagini perché non sono cose e con le parole perché non sono sentimenti. Le parole e le immagini sono come conchiglie che sono parte integrale della natura non meno delle sostanze che racchiudono, ma che colpiscono di più l’occhio e sono più facili da osservare. Non penso che la sostanza esista in funzione delle apparenze, né i volti in funzione delle maschere o le passioni in funzione della poesia e della virtù. In natura niente è creato in funzione di qualcos’altro: tutti questi aspetti e questi risultati sono ugualmente coinvolti nel cerchio dell’esistenza”.
Sono parole tratte da i Soliloquies in England and Later Soliloquies di George Santayana, filosofo realista spagnolo morto a Roma nel 1952, e messe in apertura de “La vita quotidiana come rappresentazione” da Erving Goffman, una delle figure più originali della sociologia contemporanea. La maschera e il palcoscenico, strumenti per spiegare la vita e i suoi modi, le sue maniere, le sue espressioni. Per decenni noi sociologi e psicologi sociali ci siamo abbeverati alla fonte sempre fresca di questo testo: cambiavano alcuni costumi, la scena si faceva più veloce e contratta, ma i volti e di questi le infinite declinazioni restavano, permaneva la leggibilità di una grammatica ricca ma allo stesso tempo quasi elementare.
Il senso della maschera, del ritorno al volto, della velocità di passaggio dall’una all’altro e dall’altro all’una: come possiamo decifrarlo e come possiamo raccontarlo, oggi? Quale può essere il punto di incontro tra la notizia, la pseudo-notizia (le infinite gradualità del mondo fake, che vanno capite e inquadrate nel contesto che le genera e che, non è una bestemmia, ha anch’esso potere informativo) e la scienza che nell’osservazione tenta di risolvere la propria inconfutabile incompiutezza? Il punto di incontro è la strada, sono le persone, è il palcoscenico immutato sul quale si muovono nuovi caratteri.
Da febbraio ad oggi tutto è cambiato eppure ancora ci leggiamo e interpretiamo inserendo la quotidianità e gli eventi all’interno delle vecchie categorie.
Solo dopo aver messo in atto questo si potrà tornare ad arricchire i pezzi giornalistici con considerazioni, para e metaletture, tentativi di analisi. Le maschere sono mirabili echi. Questo farò in questa rubrica, andrò alla ricerca non dell’anormalità sociale (così viene erroneamente considerata) che intorno al virus prende corpo ma della sua normalità, forse ancora stonata (ma è cacofonia), ancora esteticamente non armoniosa (gli occhi seguono abitudini di gusto, hanno memoria di latte culturale) ma già sedimentata (anche se avversata). Cosa può esserci di locale, di diverso, rispetto al cambiamento nazionale e addirittura mondiale generato da una pandemia? Tutto. Tutto è locale perché tutto è neonato e, prima di essere capito in generale, va pesato e inquadrato nel particolare.
Tiziana Pasetti