Pescara, chiude Taverna 58
Il titolare: «Voglio fare altro»

Pescara, chiude Taverna 58 Il titolare: «Voglio fare altro»
di Monica Di Pillo
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Martedì 3 Marzo 2020, 12:44 - Ultimo aggiornamento: 2 Marzo, 13:05

Uscire di scena da vincitore, prima che la fatica rischi di portarsi via i sacrifici di 40 anni. E’ per questo che Giovanni Marrone, al timone del ristorante La Taverna 58, ha deciso di cedere la sua attività, mura di proprietà comprese, capace di raccontare un pezzo della storia di Pescara. «Non è un problema di entusiasmo - precisa Marrone -, ne ho da vendere, ma ormai gli anni iniziano a pesare, i miei due figli, che durante la scuola mi davano una mano, hanno intrapreso altre vie e i miei collaboratori sono quasi miei coetanei, perché è un’avventura che abbiamo iniziato insieme. Siamo tuttora aperti e operativi, ma voglio iniziare a guardarmi intorno, a capire cosa offre il mercato, perché preferisco affittare o vendere la mia creatura, prima che il peso anagrafico possa schiacciare quanto costruito dal settembre del 1979».

 

Una scommessa importante quella avviata dal ragazzo di Basciano che sognava una vita da steward per l’Alitalia. Una scelta ai tempi coraggiosa, che si è rivelata vincente e antesignana di una movida che ha segnato il cuore della città. «Quando ho aperto al civico 58, da cui ho tratto ispirazione per il nome, qui al di là del fiume e lontano dalla città nuova - ricorda Giovanni Marrone - c’era solo il ristorante la Cantina di Jozz e le botteghe degli artigiani, da Otello l’impagliatore di sedie, a mastro Vincenzo il falegname e Vittorio l’orefice. Per spiegare dove fosse il ristorante utilizzavo due coordinate: la Cantina di Jozz e la casa di appuntamenti proprio di fronte».

Malgrado la zona che pure aveva dato i natali a d’Annunzio e a Flaiano non fosse quella in cui si concentravano gli investimenti di una Pescara in pieno boom economico, quel locale, nato un po’ per gioco un po’ per passione, è diventato ambasciatore della cucina made in Abruzzo con un menu tipico che sapeva incuriosire e sorprendere, prima ancora di conquistare il palato. Un trionfo di sapori il momento del dessert, con il mitico carrello dei dolci e l’affascinante gestualità con cui Marrone ammaliava i clienti nel rito dello zabaione servito al momento. Un rituale che ci mancherà. Agli inizi si rivelò strategica la scelta, anche questa una novità per i tempi, di proporre in carta una selezione di birre straniere, le stesse che Giovanni aveva gustato a Londra, servite da quei camerieri con i gilet colorati che tanto avevano colpito il suo immaginario. Aneddoti, tra un manicaretto e l’altro, ma sempre la voglia di divertirsi e accogliere i clienti a prescindere dalla fama.

«Un paio di anni fa - racconta il noto ristoratore - mentre ero al centro della sala per prendere le comande, mi si avvicinò un signore e tutta la sala si voltò improvvisamente a guardarlo, bisbigliando incredula. Io gli chiesi il nome per vedere se avesse prenotato e lui mi rispose che aveva riservato a nome Angela. Tutti ormai lo fissavano e mi guardavano attoniti, io continuavo a non capire e lui mi disse che aveva prenotato a suo nome, Piero Angela». Tradizione, ricerca e mattità, come recita il menù, raccontano l’identità del luogo. «Oggi la cucina sta cambiando, ma - conferma Marrone - non bisogna mai perdere di vista il divertimento e la socialità. Quando mi premiarono come migliore osteria d’Italia sia il Gambero Rosso che Slow Food e la Michelin mi offesi perché volevo essere considerato un ristorante. Con il tempo ho capito il valore della mia filosofia e il senso di quei riconoscimenti, che ancora oggi fioccano».


Un’insegna sopravvissuta senza alcun intoppo al trasloco della movida, che se si spegnesse sarebbe una grossa perdita per la città. Se ne andrebbe un altro posto che ha segnato generazioni, vedendo sorgere amori e decollare sogni, un po’ come già accaduto con Thomas. «Spero che questo figlio - conclude Marrone - continui a crescere e godere di ottima salute. Sono disposto ad affiancare qualche giovane promettente e volenteroso». Ma Pescara è pronta a raccogliere questa sfida? «La città - commenta Massimo Di Cintio, firma dell’enogastronomia - perde un luogo di culto e di cultura. Non so pensare alla città senza Taverna 58 che a mio parere sta a Pescara come l’Aurum, casa d’Annunzio, il porto turistico, San Cetteo e il Ponte del mare. Comprendo la scelta di Giovanni, il mestiere di ristoratore è logorante e lui ha dato molto. Che lui si offra per accompagnare in una prima fase, è un elemento di valore che non bisogna lasciarsi sfuggire».
 

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