Delitto della pittrice, un amico in Tribunale: «Lei aveva paura del marito»

Il marito e il figlio di Renata Rapposelli
di Teodora Poeta
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Venerdì 22 Febbraio 2019, 09:28
«Avevo capito che aveva rimostranze ad andare a casa del marito, ma lo ha fatto per la malattia del figlio». Una malattia che Renata Rapposelli, la pittrice 64enne di Giulianova scomparsa il 9 novembre del 2017 e ritrovata morta sulle rive del Chienti, aveva iniziato a sospettare che fosse solo una bugia, una scusa usata dal marito che nell’ultimo periodo le chiedeva di tornare insieme dopo anni di separazione.

Hanno cominciato a sfilare ieri, in aula, i primi testimoni citati dall’accusa nel processo contro Giuseppe e Simone Santoleri, marito e figlio di Renata Rapposelli, quest’ultimo assente in Tribunale per sua scelta, entrambi accusati di aver soffocato la donna e poi abbandonato il cadavere nelle campagne di Tolentino. «La mattina del 9 ottobre del 2017 mi ha mandato un messaggio per avvisarmi che stava andando dal figlio, erano le 11.32 – racconta Tonino Beccacece, conosciuto tramite il gruppo di preghiera whatsapp creato dall’amica Donatella Giambartolomei -. Alle 14.02 le ho scritto io, “Arrivata?”, ma a quel messaggio non c’è neanche la doppia spunta».

Da quel momento di Renata gli amici non hanno più tracce. Tentano di contattarla. Ma niente. E’ Beccacece che il 16 ottobre si presenta in caserma dai Carabinieri per segnalare la scomparsa. Eppure gli amici la ricordano come una donna felice. «Renata aveva tanti problemi economici – dice Donatella, amica da vent’anni -, ma ultimamente era felice, da quando aveva avuto la casa dal Comune di Ancona. Io però non posso dimenticare di averle detto che come madre non mi sarei perdonata se non fossi andata da mio figlio malato per stare accanto a lui. E lei lo ha fatto». Renata, racconta l’amica, ultimamente le aveva confidato che aveva ricevuto qualche chiamata dal marito il quale voleva tornare insieme. «Ha provato a darmi fastidio, mi aveva detto, ma io non ho capito. Il marito le faceva pressioni».

E che lei avesse paura, l’aveva scritto in un messaggio anche all’amico Tonino. Lui ieri quelle parole le ha lette in aula: «Con mio marito non si sa dove sta la verità. A volte usa sistemi strani per indurmi a tornare con lui. Quella è una croce che mi porta dritta dritta al cimitero». Secondo la tesi dell’accusa le cose sarebbero andate esattamene così. Anche il sacerdote della sua parrocchia di Ancona, con il quale Renata si scriveva sul gruppo e si confidava, sapeva che la pittrice ultimamente era molto triste per la malattia del figlio, un tumore allo stomaco di cui l’aveva messa a conoscenza il marito. E così il 9 ottobre del 2017 decide di andare a Giulianova a trovarlo. Lo confermeranno anche le celle telefoniche con un ultimo segnale utile per gli investigatori: una connessione dati che termina proprio quel giorno alle 15.39 che aggancia il ponte di Ancona, mentre l’ultima connessione voce risale alle 13 dello stesso giorno, agganciato alla cella di Alba Adriatica, quando presumibilmente Renata sta arrivando in treno proprio alla stazione di Alba e in quel momento, per pochi minuti, parla al cellulare col marito, forse per chiedergli di andare a prenderla, ma anche il cellulare dell’uomo aggancia la stessa cella.
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