Arbitra denuncia il revenge porn, la Polizia: «Diana non è sola»

Arbitra denuncia il revenge porn, la Polizia: «Diana non è sola»
di Patrizia Pennella
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Lunedì 24 Gennaio 2022, 08:11

E' abituata ad altri campi Diana Di Meo, perimetri definiti con aree e confini, campi in cui da arbitra richiama i calciatori al rispetto delle regole. Da qualche giorno la partita, più personale, si è spostata sugli spazi indefiniti del web, dove le prescrizioni si diluiscono, filtrate dall'anonimato. Foto personalissime rubate e spammate sui social, la scelta di denunciare, il coraggio di rendere pubblica la sua storia: per riprendere fiato ha deciso di staccare per tre-quattro giorni, lasciando fuori dalla porta quel mondo che, tutto d'un botto, le è entrato in casa.

«Ho denunciato per me e per le altre» racconta, perché in questa storiaccia di revenge porn l'arbitra ventiduenne di Pescara non è sola; lo dice lei stessa, sottolineando la solidarietà ricevuta da ragazze che si sono trovate e si trovano nella medesima situazione. Lo dice anche il vice questore Elisabetta Narciso, dirigente della polizia postale di Pescara, che di racconti come quelli di Diana ne ha ascoltati tanti: uno diverso dall'altro, in fondo tutti

«Purtroppo si tratta di un fenomeno in crescita - sottolinea Narciso - che il legislatore ha cercato di contenere con una serie di norme conosciute come Codice rosso. Il revenge porn è la diffusione di immagini o video sessualmente espliciti effettuata all'insaputa e contro la volontà della parte offesa». Il caso della giovane arbitra pescarese rientra in questa fattispecie. «Sì e questo prevede una procedura particolarmente accelerata - spiega Narciso - e un inasprimento delle pene, rispetto alla normativa precedente. La parte offesa può avere delle informazioni che consentono di arrivare a individuare i responsabili della pubblicazione delle immagini».

L'effetto perverso della comunicazione globale è che nulla si cancella mai veramente: «E' vero - conferma Narciso -, una volta che il materiale viene immesso nella rete è veramente difficile rimuoverlo.

La tempestività è comunque importante: noi siamo tenuti a informare immediatamente l'autorità giudiziaria, che a sua volta ha tre giorni di tempo per delegare l'attività d'indagine. Sono tutte previsioni pensate per tutelare al più presto la vittima del reato».

C'è una rete di tutela per chi decide di denunciare: «E' una scelta difficile, che richiede molta forza, ma è importante far capire che c'è un'indagine in corso. Per questo alla persona offesa può e deve essere dato sostegno. Da parte nostra - sottolinea Narciso - siamo sempre estremamente attenti alla sensibilità di chi si rivolge a noi. Cerchiamo di mettere le persone a loro agio, in modo da farle parlare per capire cosa è giusto fare. Poi iniziamo a lavorare con gli elementi che abbiamo a disposizione, magari estraendo i dati dai telefoni o ascoltando le testimonianze. Ci sono poi associazioni che lavorano proprio per aiutare le vittime di questi reati. Una sinergia importante, perché questi fatti hanno un effetto psicologico devastante sulle persone: il tempo di un clic e vita e immagine sono letteralmente disintegrate. Il primo consiglio resta però sempre quello di non condividere video e foto personali, nemmeno con quella che ci sembra la persona della nostra vita o un'amicizia importante, perché le cose possono cambiare. Né vanno diffuse le password di cloud e account personali che custodiscono questi materiali».

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