E' abituata ad altri campi Diana Di Meo, perimetri definiti con aree e confini, campi in cui da arbitra richiama i calciatori al rispetto delle regole. Da qualche giorno la partita, più personale, si è spostata sugli spazi indefiniti del web, dove le prescrizioni si diluiscono, filtrate dall'anonimato. Foto personalissime rubate e spammate sui social, la scelta di denunciare, il coraggio di rendere pubblica la sua storia: per riprendere fiato ha deciso di staccare per tre-quattro giorni, lasciando fuori dalla porta quel mondo che, tutto d'un botto, le è entrato in casa.
«Ho denunciato per me e per le altre» racconta, perché in questa storiaccia di revenge porn l'arbitra ventiduenne di Pescara non è sola; lo dice lei stessa, sottolineando la solidarietà ricevuta da ragazze che si sono trovate e si trovano nella medesima situazione. Lo dice anche il vice questore Elisabetta Narciso, dirigente della polizia postale di Pescara, che di racconti come quelli di Diana ne ha ascoltati tanti: uno diverso dall'altro, in fondo tutti
«Purtroppo si tratta di un fenomeno in crescita - sottolinea Narciso - che il legislatore ha cercato di contenere con una serie di norme conosciute come Codice rosso. Il revenge porn è la diffusione di immagini o video sessualmente espliciti effettuata all'insaputa e contro la volontà della parte offesa». Il caso della giovane arbitra pescarese rientra in questa fattispecie. «Sì e questo prevede una procedura particolarmente accelerata - spiega Narciso - e un inasprimento delle pene, rispetto alla normativa precedente. La parte offesa può avere delle informazioni che consentono di arrivare a individuare i responsabili della pubblicazione delle immagini».
L'effetto perverso della comunicazione globale è che nulla si cancella mai veramente: «E' vero - conferma Narciso -, una volta che il materiale viene immesso nella rete è veramente difficile rimuoverlo.
C'è una rete di tutela per chi decide di denunciare: «E' una scelta difficile, che richiede molta forza, ma è importante far capire che c'è un'indagine in corso. Per questo alla persona offesa può e deve essere dato sostegno. Da parte nostra - sottolinea Narciso - siamo sempre estremamente attenti alla sensibilità di chi si rivolge a noi. Cerchiamo di mettere le persone a loro agio, in modo da farle parlare per capire cosa è giusto fare. Poi iniziamo a lavorare con gli elementi che abbiamo a disposizione, magari estraendo i dati dai telefoni o ascoltando le testimonianze. Ci sono poi associazioni che lavorano proprio per aiutare le vittime di questi reati. Una sinergia importante, perché questi fatti hanno un effetto psicologico devastante sulle persone: il tempo di un clic e vita e immagine sono letteralmente disintegrate. Il primo consiglio resta però sempre quello di non condividere video e foto personali, nemmeno con quella che ci sembra la persona della nostra vita o un'amicizia importante, perché le cose possono cambiare. Né vanno diffuse le password di cloud e account personali che custodiscono questi materiali».