Aquila “magnifica citade”: sismi, peste e l’arte di Teofilo Patini

L’altare del Duomo dell’Aquila, che ospitava la pala del Patini, dopo il sisma del 2009
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Domenica 24 Maggio 2020, 11:24 - Ultimo aggiornamento: 13:04
Che il Coronovirus sia una forma di “peste contemporanea” legata a doppio filo con la frenetica mobilità per ragioni lavorative, di studio o di vacanze, non ci piove. Tragedia tra le tragedie, l’onnipresente, trasformista virus, imparentato in un modo o nell’altro con i suoi malefici antenati, aveva nel corso dei secoli mietuto reiteratamente vittime su vittime anche ne “La magnifica citade” di Aquila (senza L’), cantata dal suo poeta trecentesco Buccio di Ranallo.

Testimone oculare di ben due luttuosi eventi susseguitisi negli anni 1348-1349: la “peste nera” prima, il terremoto subito dopo. Se vogliamo, una sostanziale replica di quanto è successo tra il sisma del 2009 e il Covid-19. Traiamo, per entrambi, alcuni significativi versi dalla sua “Cronica rimata”. Per la peste: “Ma no fo solu in Aquila,/ ma fo in ogni contrada,/ no tanto fra cristianj/ m’a’ Sarracini è stata;/ sì generale piaga/ mai no fo recordata/ dal tempo del diluvio,/ della gente anegata”. Per il terremoto: “Da persone ottocento/ d’Aquila, oderate, (udite, n.d.a.)/ che per lu terramuto/ foro morte e socterrate;/ or chi vedeo strillare/ e fare pietate,/ chi piangea lu fillio/ chi la mollie, chi lu frate”. Peste che non risparmierà questa volta il poeta nella successiva epidemia del 1363.

Per ritornare ai giorni nostri, un’altra emblematica “liaison” tra peste e terremoti, si è verificata con lo sventramento del Duomo avvenuto con il sisma del 6 aprile. Duomo, che val la pena di ricordare ancora una volta, ha subito nel frattempo ulteriori danni nelle strutture architettoniche e negli apparati decorativi ed artistici a causa dei mancato inizio, a tutt’oggi, della ricostruzione. Ci riferiamo alla sostanziale distruzione del cosiddetto “Altare del popolo milanese” realizzato nel 1827, impreziosito artisticamente sul finire dei successivi anni Ottanta con la pala d’altare “S. Carlo Borromeo tra gli appestati” dipinta da Teofilo Patini. Tela monumentale dalle notevoli dimensioni di oltre 13 mq, ridotta a brandelli, tardivamente recuperati insieme all’urna contenente le spoglie di San Vittorino martire, brandelli che renderanno molto problematico un suo eventuale quanto accettabile restauro.

orprendenti, ulteriori coincidenze simboliche, annodano l’altare e il dipinto a quanto sta succedendo, in termini di infettati e deceduti in questi tremendi mesi, a Milano e in tutta la Regione. Infatti, nell’opera patiniana, commissionata dalla “Confraternita dei Santi Ambrogio e Carlo del popolo milanese” ed evocante la tremenda epidemia diffusasi in città nel biennio 1576-1577, il crudo realismo del pittore abruzzese ancora una volta consono alla sua poetica dalla forte connotazione della denuncia sociale così ben raffigurata in capolavori quali “L’erede”, “Bestie da Soma” e “Vanga e latte”, evoca sia la figura del Santo mentre con lo sguardo rivolto al cielo e le braccia aperte, implora la misericordia divina, che quella degli appestati.

Ma è nella descrizione figurativa della processione, che il solido legame esistente tra la comunità lombarda e quella aquilana, viene dal pittore abruzzese- con un’invenzione creativa degna della migliore attenzione- sottolineata con la citazione visiva della parte centrale del polittico tardo-quattrocentesco proveniente da Sant'Angelo d’Ocre ed attualmente esposto al Munda.

Da segnalare, infine, che qualora non si riuscisse a restaurare l’opera in questione, sarà possibile “respirare” ancora il pathos di quella dolente umanità implorante la clemenza divina, nel bel bozzetto facente parte della collezione già Carispaq.

Antonio Gasbarrini
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