Omertà e soggezione, così la mafia ha trovato spazio a Viterbo: le motivazioni delle condanne

Mafia Viterbese, l'attentato all'imprenditore Grazini
di Maria Letizia Riganelli
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Giovedì 17 Settembre 2020, 06:50 - Ultimo aggiornamento: 15:19
E’ mafia, «non c’è margine di dubbio». Dopo la sentenza arrivano le motivazioni. La giudice Emanuela Attura, gup del Tribunale di Roma, spiega perché il gruppo di calabresi e albanesi, che per due anni ha colpito il capoluogo della Tuscia, è un’associazione a delinquere di stampo mafioso.

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A giugno scorso Giuseppe Trovato, Ismail Rebeshi e il gruppo di sodali sono stati condanni a oltre 79 anni di carcere. Le pene più dure, ovviamente, ai due capi. «Il quadro probatorio - spiega la giudice in quasi 400 pagine di motivazioni - è chiaro e inequivoco». Pochi dubbi quindi e molte certezze su dove ancorare il sodalizio capeggiato da Trovato e Rebeshi, ritenuti entrambi i capi indiscussi.

Un ruolo rivendicato con forza dall’albanese anche in fase processuale, quando prese la parola per “correggere” un avvocato che aveva sbagliato il nome del collaboratore di giustizia. «Voglio che non si fraintenda nessuno. Rebeshi non è un collaboratore». Secondo la giudice Attura la necessità di precisare la propria avversione nei confronti del pentito molto significa riguardo al ruolo di capo dell’associazione mafiosa. «In tale veste - spiega nelle motivazioni - deve necessariamente mettere in chiaro con gli altri sodali la permanenza nei confronti dell’associazione». 

Ma per capire come un gruppo di eterogenei sia riuscito a mettersi insieme per assoggettare un territorio, bisogna partire dal contesto. «Viterbo - scrive il magistrato romano - è una tranquilla città della provincia italiana. A partire dal 2017 registrata serie di avvenimenti anomali rispetto al pacifico andamento della vita cittadina. È emerso che il sodalizio agisce con sistematico ricorso alla violenza, esercitato per lo più con attentati incendiari, ma anche con l’uso di armi e si caratterizza per l’assoggettamento e l’omertà che è stata in grado di determinare non soltanto sulle persone offese negli ambiti settoriali interessati ma anche sulla intera collettività nella quale si è via via diffuso un comune sentire caratterizzato da soggezione di fronte alla forza prevaricatrice del gruppo».

Omertà e assoggettamento sono le parole che ricorrono e che hanno permesso al gruppo di divenire mafia e per due anni mettere a segno 43 attentati, tra incendi, estorsioni, pestaggi e danneggiamenti. Una mafia vera, senza alcuna limitazione. «Appaiono prive di consistenza - spiega ancora la giudice Attura - le prospettazioni difensive, basate sulla sottovalutazioni delle modalità operative del sodalizio fino ad affermare che si è in presenza di un gruppo criminale che riproduce le modalità operativa delle tradizionali associazioni mafiose, senza possederne le caratteristiche. Al contrario le indagini hanno dimostrato che non si è in presenza di una “imitazione” del metodo mafioso ma di vera e propria utilizzazione di tale metodo».

Nessuna imitazione quindi. La mafia viterbese viene collocata dalla giudice nelle “mafie senza nome o piccole mafie“, come quella del clan Fasciani di Ostia. «Non è mafiosità del singolo o dei singoli a qualificare in sé l’associazione, ma è il modo di essere e di fare che individua il tratto che rende quella associazione “speciale” rispetto alla comune associazione per delinquere». 

E poi avverte: «Si deve prestare maggiore attenzione, come nel caso di specie, quando si ha a che fare con una realtà associativa delinquenziale diversa delle mafie già note».
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