Estorsione, la banda dei Rebeshi al processo contesta la traduttrice

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Sabato 12 Marzo 2022, 07:00

Nessuno sa, nessuno capisce. E nessuno ha visto niente. I tre al servizio di Ismail e David Rebeshi sono testimoni del processo per estorsione aggravata dal metodo mafioso. Vittime due imprenditori della Tuscia, presunti creditori del boss di mafia viterbese. L’inchiesta prende le mosse quando Rebeshi è già dietro le sbarre con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, avrebbe continuato a impartire ordine ai suoi per rientrare di alcuni crediti. In particolare avrebbe manifestato al fratello David, in quel frangente ancora libero, la necessità di recuperare crediti presso due piccoli imprenditori, con precedenti penali. I due, un ristoratore e un tuttofare nel campo della compravendita di automobili, nel processo si sono costituiti parte civile.


Rebeshi junior, con l’aiuto di tre ventenni albanesi - condannati in appello a quasi 9 anni di carcere - avrebbe minacciato e inseguito i due creditori del fratello. A raccontare le estorsioni ieri sono stati chiamati i tre ventenni, che hanno parlato in video collegamento dai carcere dove sono reclusi.

Collegati anche i due fratelli imputati, che più volte hanno chiesto di prendere la parola per mettere in discussione le traduzioni dell’interprete di lingua albanese. «Sì, siamo stati a cena con David al ristorante a Tuscania - ha detto uno dei tre - e loro erano come fratelli. Ma non ho capito niente di quello che si sono detti, non parlo italiano. E non ho visto nemmeno un passaggio di soldi». Un altro ha invece spiegato: «Ho capito che c’era un problema di soldi per una macchina. Ma non c’è stata nessuna minaccia, abbiamo lanciato insulti a un macedone che lavorava al ristorante». 


Stessa versione ripetuta anche dall’ultimo testimone, che come gli altri ha spiegato al collegio di aver cambiato i fatti rispetto all’interrogatorio di garanzia, perché quando sono stati ascoltati dal giudice erano sconvolti per i 20 giorni di isolamento. Alla domanda del pm Fabrizio Tucci sul nome particolare con cui chiamavano David Rebeshi, uno dei tre ha spiegato: «Era solo in segno di rispetto»

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