Un periodo difficile durante il quale si è acceso l’interesse di molti verso l’agricoltura urbana, con persone sempre più attente ai temi legati alla produzione alimentare: «Si tratta di un trend in ascesa negli ultimi 10 anni - sottolinea Grohmann - ma ora si è nettamente accentuato. Del resto il peggior danno psicologico di quanto stiamo vivendo è che le persone si abituano a stare chiuse, quindi il contatto con la terra e con le piante è un antidoto per restare collegati a spazi più ampi. Quanti hanno avvertito la difficoltà durante la quarantena di distinguere un giorno dall’altro? A me è successo. Avere un’attività come l’orticoltura, anche solo qualche vaso sul balcone, permette di osservare cose che cambiano e si trasformano giornalmente. Un fenomeno che restituisce una dimensione importante alla nostra vita. Inoltre si è innescato un ragionamento, ovvero che non è saggio far venire ad esempio una mela da chissà dove, perché se arriva da vicino avrà fatto meno passaggi e sarà quindi un prodotto più sicuro. Così un territorio come il nostro, che spesso sentiamo criticato per il suo isolamento, ha un vantaggio notevole: non solo perché presenta una serie di eccellenze nella produzione agricola che molti ci invidiano, ma anche perché qui spostare merci diventa complicato mentre riuscire a produrre e consumare in spazi ridotti è la cosa più semplice da fare. Il mercato sta già cominciando ad esplorare questa cosa, sebbene questo meccanismo non abbia raggiunto la massa critica necessaria».
Senza dubbio l’Umbria potrebbe puntare su una filiera fruita in primis dagli abitanti del territorio e da quelli nel medio raggio, con una richiesta di prodotti cosiddetti “a chilometro zero” che si preannuncia crescente. Uno scenario che porrebbe la regione in vantaggio rispetto a chi, per tradizione e conformazione, ha puntato su produzioni intensive e aree sterminate dedicate a una sola coltura (senza giri di parole, dove la biodiversità è stata annichilita sarà molto più difficile ipotizzare aree di autosussistenza, ndr). «L’opportunità la vedo - ammette il docente del corso in economia e cultura dell'alimentazione dell’Università perugina - ma non so con quale rapidità il mercato saprà individuare gli strumenti e i metodi per sfruttarla. Il problema grosso è che la natura non si ferma, i cicli sono quelli che sono, quindi se la valorizzazione non avverrà in breve la nostra agricoltura si troverà penalizzata. Inoltre mentre i ragazzi che vorranno iscriversi alla facoltà di medicina saranno di più dopo questa crisi, temo che non si sia colta allo stesso modo l’importanza della produzione di un cibo sano e di qualità. Noi qui all’Università registriamo da anni il ritorno dei giovani che riscoprono queste attività, non certo vedendole come una perdita di dignità ma come l’esatto contrario. Produrre dei beni indispensabili è anche un orgoglio, come lo sono i lavori stagionali che per molti rappresentano un’opportunità avendo occupazioni che non garantiscono una continuità. Però facendone un discorso di numeri, l’agricoltura è un settore “primo” solo nel nome… in realtà è l’ultimo. Non mi vorrei illudere che la pandemia cambi questo, però è giusto mantenere viva la nostra speranza in un mondo migliore di quel che è».
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