Alla Facoltà di Agraria gli orti sociali
resistono al periodo di crisi e fanno
scuola per un futuro più sostenibile

Alla Facoltà di Agraria gli orti sociali resistono al periodo di crisi e fanno scuola per un futuro più sostenibile
di Michele Bellucci
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Mercoledì 6 Maggio 2020, 07:45
PERUGIA - «Storicamente anche l’orticoltura urbana prospera dopo i momenti di crisi, come accaduto dopo la crisi petrolifera degli anni ’60 ad esempio. È un’ancora alla quale le persone si aggrappano nei momenti più difficili e allo stesso modo se ne allontanano quando con l’opulenza diventa meno “cool” sporcarsi le mani». La lucida fotografia di quanto accaduto durante le difficili settimane della quarantena anti-Coronavirus è di David Grohmann, ricercatore del Dipartimento di Scienze Agrarie Alimentari e Ambientali dell'Università degli Studi di Perugia nonché uno dei principali motori dell’Orto Sociale di San Pietro. Un progetto che dalla fine del 2014 ha permesso di recuperare alcuni spazi nei terreni della Facoltà di Agraria inutilizzati da 15 anni, nell’area di Borgo XX Giugno, per realizzare quegli orti urbani che ad oggi riuniscono varie realtà del territorio, dall’Associazione Borgo Bello all’UniTre, passando per Umbra Institute, l’ITIS di Piscille, l’ONG Tamat e la scuola primaria XX giugno. Anche se il distanziamento sociale imposto dalla pandemia ha modificato alcune cose, l’orto didattico è rimasto in attività e sono emersi interessanti trend tra la popolazione: «In questo periodo la gente ha avuto più tempo per dedicarsi a ciò che gli interessa, quindi anche le informazioni si trasferiscono bene. C’è stata meno attività pratica ma per la divulgazione ci sono stati ampi spazi. Ora chiunque si dedica a sperimentazioni e anche chi ha solo un giardino o un terrazzo ha messo in piedi un piccolo orto».

Un periodo difficile durante il quale si è acceso l’interesse di molti verso l’agricoltura urbana, con persone sempre più attente ai temi legati alla produzione alimentare: «Si tratta di un trend in ascesa negli ultimi 10 anni - sottolinea Grohmann - ma ora si è nettamente accentuato. Del resto il peggior danno psicologico di quanto stiamo vivendo è che le persone si abituano a stare chiuse, quindi il contatto con la terra e con le piante è un antidoto per restare collegati a spazi più ampi. Quanti hanno avvertito la difficoltà durante la quarantena di distinguere un giorno dall’altro? A me è successo. Avere un’attività come l’orticoltura, anche solo qualche vaso sul balcone, permette di osservare cose che cambiano e si trasformano giornalmente. Un fenomeno che restituisce una dimensione importante alla nostra vita. Inoltre si è innescato un ragionamento, ovvero che non è saggio far venire ad esempio una mela da chissà dove, perché se arriva da vicino avrà fatto meno passaggi e sarà quindi un prodotto più sicuro. Così un territorio come il nostro, che spesso sentiamo criticato per il suo isolamento, ha un vantaggio notevole: non solo perché presenta una serie di eccellenze nella produzione agricola che molti ci invidiano, ma anche perché qui spostare merci diventa complicato mentre riuscire a produrre e consumare in spazi ridotti è la cosa più semplice da fare. Il mercato sta già cominciando ad esplorare questa cosa, sebbene questo meccanismo non abbia raggiunto la massa critica necessaria».

Senza dubbio l’Umbria potrebbe puntare su una filiera fruita in primis dagli abitanti del territorio e da quelli nel medio raggio, con una richiesta di prodotti cosiddetti “a chilometro zero” che si preannuncia crescente. Uno scenario che porrebbe la regione in vantaggio rispetto a chi, per tradizione e conformazione, ha puntato su produzioni intensive e aree sterminate dedicate a una sola coltura (senza giri di parole, dove la biodiversità è stata annichilita sarà molto più difficile ipotizzare aree di autosussistenza, ndr). «L’opportunità la vedo - ammette il docente del corso in economia e cultura dell'alimentazione dell’Università perugina - ma non so con quale rapidità il mercato saprà individuare gli strumenti e i metodi per sfruttarla. Il problema grosso è che la natura non si ferma, i cicli sono quelli che sono, quindi se la valorizzazione non avverrà in breve la nostra agricoltura si troverà penalizzata. Inoltre mentre i ragazzi che vorranno iscriversi alla facoltà di medicina saranno di più dopo questa crisi, temo che non si sia colta allo stesso modo l’importanza della produzione di un cibo sano e di qualità. Noi qui all’Università registriamo da anni il ritorno dei giovani che riscoprono queste attività, non certo vedendole come una perdita di dignità ma come l’esatto contrario. Produrre dei beni indispensabili è anche un orgoglio, come lo sono i lavori stagionali che per molti rappresentano un’opportunità avendo occupazioni che non garantiscono una continuità. Però facendone un discorso di numeri, l’agricoltura è un settore “primo” solo nel nome… in realtà è l’ultimo. Non mi vorrei illudere che la pandemia cambi questo, però è giusto mantenere viva la nostra speranza in un mondo migliore di quel che è».
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