Omicidio del piccolo Alex, intervista esclusiva al papà: «Crimine consapevole. Ora voglio solo giustizia per mio figlio»

Norbert Juhasz, papà di Alex, nella redazione del Messaggero a Perugia
di Egle Priolo
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Giovedì 16 Febbraio 2023, 07:19 - Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 17:06

PERUGIA - Norbert Juhasz ha gli occhi azzurri e limpidi come il figlio Alex. Quelli del bimbo, però, ridevano. L'aura rossa intorno ai suoi, invece, tradisce un dolore sordo e senza soluzione: per tutta la vita lui sarà il papà a cui un figlio di due anni è stato strappato dalla violenza di sette coltellate inferte dalla madre. Norbert arriva a Perugia per la seconda volta: la prima per riportare a Budapest il cadavere di Alex, ieri per testimoniare contro Katalin Erzsebet Bradacs, la sua ex accusata dell'omicidio più atroce. Dopo un'udienza difficile e molto tesa, ha accettato di parlare con Il Messaggero e raccontare il suo cuore che ora batte solo a metà.
Addosso, il completo blu scuro e la camicia bianca delle grandi occasioni: è un uomo semplice, un operaio comunale, poche parole ma pesanti come macigni. Eppure cerca sempre di sorridere: ma, si vede, per cortesia. Il sorriso di Alex in cui si ritrovava non tornerà mai più.

Norbert, prima di tutto, come sta?
«Il mio stato d’animo è altalenante, cambia di giorno in giorno. Sono ovviamente provato, è stato molto difficile essere presente, ma sono soddisfatto di aver fatto il mio dovere. Lo dovevo ad Alex».
Come è sopravvivere alla morte così violenta di un figlio?
«Non ci sono parole per descrivere cosa si prova. È un dolore inimmaginabile e quindi indescrivibile».
Alex che bambino era?
«Era un bambino solare, gioioso, molto affettuoso. Avevamo un bellissimo rapporto e proprio questo non piaceva a lei. Ad Alex piaceva stare con me e questa cosa la disturbava. A Natale gli avevo comprato un trattore giocattolo ed era il suo gioco preferito...».
Che ricordo ha del suo bambino?
«Bellissimo. Attraverso il suo ricordo cerco di alleviare il dolore che provo in ogni momento, anche se è impossibile».
Cosa ha pensato quando è andato finalmente a riprenderlo dopo la decisione sull'affidamento e in casa non ha trovato nessuno?
«Ho subito pensato che la madre si potesse essere allontanata con il bambino per sottrarsi al provvedimento del tribunale. Avevo purtroppo imparato a conoscerla. Ho sempre pensato che sarebbe potuto succedere qualcosa di brutto. Sì, perché lei era disposta a qualsiasi cosa pur di non dare Alex a me».
Immaginava possibile un epilogo così drammatico?
«Purtroppo avevo questa paura, perché in più occasioni la madre aveva minacciato di fare del male al bambino qualora fosse stato affidato a me. E mi ero anche reso conto di come fosse capace di azioni molto cattive».
Chi la sta aiutando a superare questo dramma?
«I familiari e gli amici mi stanno dando un grande supporto».
Ha rapporti con la famiglia della Bradacs?
«No, non ho alcun rapporto con loro, anche perché cercano in ogni modo di giustificare il comportamento della figlia e trovo questo intollerabile».
Crede che sia stato fatto il massimo in Ungheria per evitare la fuga?
«La Bradacs quando è venuta in Italia con Alex era libera di farlo, perché il minore era affidato a lei. Questo dimostra quanto fosse premeditato il suo disegno. Quindi quando ha lasciato il suo paese non era tecnicamente una fuggitiva, si può parlare di fuga solo dal momento che è stato emesso il provvedimento del tribunale ungherese che ha affidato Alex a me e lei ha fatto immediatamente perdere le sue tracce».
Lei è partita per Roma il 12 settembre, con il biglietto acquistato il 10. La decisione è arrivata il 27, quando lei ha fatto subito denuncia... Recrimina qualcosa della gestione del caso, dal procedimento per l'affidamento fino alle ricerche di Alex?
«Difficile rispondere, il procedimento in Ungheria è stato abbastanza veloce e i giudici hanno capito che il bambino non poteva stare con la madre. Prevedere azioni così gravi è molto difficile perché la maggior parte delle persone non riesce neanche a immaginare azioni così malvagie poste in essere da una madre verso il proprio figlio, questo rende la previsione molto difficile. Ovviamente sono turbato dal fatto che il giorno prima sia stata fermata e denunciata dai carabinieri proprio per il possesso di un coltello. Anche in tale occasione ha mostrato quanto fosse brava a mentire poiché ha dato ai carabinieri una spiegazione credibile».
Lei crede all'ipotesi che Katalin non fosse capace di intendere e di volere?
«Non ho dubbi che fosse pienamente capace di intendere e di volere. Ho avuto purtroppo modo di conoscerla, è una persona profondamente cattiva ed egoista. È capace di mentire in modo strumentale e strutturato. Una manipolatrice professionista. Anche durante il processo, del resto, inizialmente fingeva di non capire la lingua italiana. Anche con me aveva ricostruito una sua vita passata alternativa a quella reale e costruito quindi un rapporto basato sulle menzogne. Ho impiegato mesi a capire quale fosse la verità».
Cosa si aspetta dal processo in Italia?
«Non cerco vendetta, ma giustizia per mio figlio. Quello che mi aspetto è che la Corte di assise capisca che l'omicidio di Alex sia un'azione pensata e posta in essere con piena consapevolezza. Sono convinto che la contestazione della procura verrà accolta dai giudici».
In aula Bradacs l'ha interrotta spesso dicendo che lei stesse mentendo. Si aspettava questa reazione?
«Sì, perché ha sempre fatto così. In tutto il nostro percorso mi ha sempre attaccato dicendo che io dicessi bugie».
Va spesso a trovare Alex al cimitero?
«Tutti i giorni».
E quel trattore adesso dov'è?
«È sempre con me».

L'UDIENZA

Il gattino del figlio «sbattuto contro un muro» per rabbia. Poi i «colpi sulla pancia» mentre era incinta e «prendeva tante pillole dannose per il feto». E ancora quel rapporto «turbolento» finito in tribunale per l'affidamento del bambino «a cui – disse agli assistenti sociali - “butto la benzina addosso e gli do fuoco se va a lui”». Fino a quella foto e quel video del corpo del bambino «insanguinato» e appena morto inviati al figlio maggiore. L'orrore di una madre che uccide il figlio di due anni a coltellate è ancora più devastante se a raccontare il prima e il dopo è il papà di quell'angelo, ucciso a Po' Bandino il primo ottobre 2021. È il processo a Katalin Erzsebet Bradacs, accusata dal pm Manuela Comodi di omicidio volontario premeditato, e ieri davanti alla Corte d'assise è arrivato a testimoniare Norbert Juhasz, papà del piccolo Alex. Juhasz ha raccontato l'incontro con la 45enne nel 2002/2003, poi la relazione iniziata nel 2018 e la gravidanza improvvisa. Rapporti poco sereni dall'inizio tra i due, «migliorati dopo la nascita di Alex» fino alla battaglia per l'affidamento. I servizi sociali, la scoperta che la donna avesse girato film porno – lui prima la sapeva solo ballerina di striptease – e poi quei problemi psicologici che portarono al ricorso urgente per ottenere l'affidamento a fine agosto 2021 perché lo «stato mentale sta peggiorando». Un particolare sollevato dalla difesa della donna, con l'avvocato Enrico Renzoni, che punta chiaramente a dimostrare l'incapacità di intendere e di volere di Bradacs per ottenerne la non imputabilità. Un punto su cui – in un'udienza già molto complicata e tesa – è intervenuto con forza il pm, chiarendo come sia «inaccettabile chiedere una perizia psichiatrica al papà di Alex». Scaramucce processuali? Non proprio. Essendo la capacità di intendere e volere (sussistente, secondo una perizia collegiale) il nodo dell'intero processo - dopo la confessione seppur allucinata e prove difficilmente contestabili - su cui si baserà la pena, in qualità e quantità.
Se non bastasse, i picchi di alta tensione erano stati diversi, con Bradacs che a più riprese ha risposto – in italiano – alle affermazioni di Juhasz, a suon di «No» o «È una bugia».

Talmente spesso che, dopo alcuni avvertimenti, la presidente Carla Maria Giangamboni l'ha fatta allontanare dall'aula. La donna uscendo, scortata dalla polizia penitenziaria, si è allora rivolta al pm: «Scusa signora, quando posso tornare?». Lasciando cadere addosso a Comodi un foglio scritto fitto fitto a penna blu: «È quello che voglio dire». Anche qui, Juhasz – che è sempre stato girato di tre quarti per non incrociare i suoi occhi – ha abbassato lo sguardo. Per non vedere la donna che gli ha regalato un angelo e che poi glielo ha tolto.

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