Federici, da Corcolle ad Atlantic City: «Ho conquistato l'America, ora sogno il mondiale»

Franco e Simone Federici
di Stefano Buttafuoco
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Venerdì 6 Dicembre 2019, 19:38
Dopo trent’anni un pugile italiano conquista in America una cintura internazionale: è romano, ha ventisei anni e ora sogna il mondiale. Era il 27 ottobre del 1989 quando Gianfranco Rosi conquistò sul ring di Atlantic City il titolo mondiale dei pesi superwelter, titolo che difese ben undici volte prima di cederlo a Las Vegas nel 1994 per mano di Vincent Pettway. Trent’anni dopo un altro italiano è riuscito nell’impresa di portare dall’America una prestigiosa cintura internazionale. Si tratta di Simone Federici (16-2-1), ventiseienne atleta romano, già campione italiano e già campione del Mediterraneo dei pesi massimi leggeri, che sabato scorso, sul ring del Paramount Theatre di New York si è aggiudicato il titolo continentale Wbc Americano di categoria. Una sorta di anticamera al titolo mondiale, già vinto tra l’altro da pugili importanti quali il peso massimo americano Deontay Wilder.

Una storia tutta da raccontare quella di questo “ragazzone” romano che vive a Corcolle, nella periferie est della capitale, se non altro perché al suo angolo, come al solito, c’era lo zio Franco, anch’egli nel passato pugile professionista, e suo allenatore da sempre, da quando all’età di sei anni Simone entrò per la prima volta in una palestra di boxe sognando di diventare il più forte di tutti.

Simone, quando hai deciso di tentare fortuna in America?
«Dopo la conquista del Titolo del Mediterraneo sono stato contattato da un intermediario, Armando Bellotti, che mi ha proposto di arruolarmi con la Star Boxing di Joe La Guardia, un procuratore americano che fa combattere i suoi pugili nelle riunioni dell’organizzatore Luigi Camputaro. Ne abbiano parlato insieme con mio zio ed abbiamo deciso che fosse arrivato il momento di provarci. Ci siamo voluti mettere in discussione, siamo inizialmente stati presi per matti nel senso che avevamo una strada già pianificata che abbiamo voluto abbandonare per lanciarci in questa avventura decisamente più rischiosa. I fatti ci hanno dato ragione».

Quello del 23 novembre non è stato il tuo primo incontro negli Stati Uniti però…
«No. Ho fatto il mio debutto il 22 febbraio di quest’anno contro Joel Tambwe Djeko, perdendo di strettissima misura un match contro un pugile molto quotato. A dire il vero secondo molti neanche avevo perso. Ma è stata una sconfitta che è valsa come una vittoria che mi ha fatto conoscere al grande pubblico. In America hanno apprezzato molto il mio tipo di pugilato sempre all’attacco e per questo sono stato richiamato da Joe De Guardia che mi ha voluto dare questa seconda chance».
Che tipo di match è stato ?
«Un incontro difficile, sulla carta come nei fatti. Stivens Bujaj (17-2-1), il mio avversdario, era più esperto di me ed aveva tutto il tifo dalla sua parte essendo residente negli Stati Uniti. Aveva già sfidato pugili di livello mondiale ma io sono riuscito ad imporre la mia maggiore fisicità e la mia maggiore tecnica portando a casa un verdetto ai punti per decisione unanime che mi ha ripagato di tutti i sacrifici di quest’ultimo anno».
E ora?
«Ora si torna nella realtà di tutti i giorni. Lavoro nel bar di Via Prenestina di mio zio Franco che poi è anche il mio allenatore ma con la testa siamo tutti e due già al prossimo incontro. Abbiamo un sogno da raggiungere, siamo solo a metà dell’opera che comunque non è poco».

Lo zio Franco sempre nella sua vita, ventiquattro al giorno, al bar come in palestra. Un legame indissolubile che rievoca i rapporti magici tra pugile e maestro dei migliori film dedicati alla noble art, da Rocky fino al più recente Creed. Una famiglia tutto pane e pugilato quella dei Federici se è vero che anche il fratello di Simone, Mario è un boxeur di grande qualità che però ha preferito puntare sulla carriera da dilettante combattendo per il Gruppo Sportivo della Fiamme Oro.

«Simone è un ragazzo semplice dal grande cuore - ci racconta l’allenatore Franco Federici, vicepresidente del comitato del Lazio - Da dilettante ha combattuto una cinquantina di volte poi - dopo aver vinto due volte i Campionati italiani - ha deciso di lanciarsi nel mondo dei professionisti anche se ancora molto giovane. Non ama parlare troppo, preferisce lavorare in palestra dove è sempre molto serio e concentrato. Questa è la sua forza maggiore. Non ha paura di nessuno, è un ragazzo equilibrato e pensa solo a fare bene sul ring, il luogo dove si trova più a suo agio».
Quando il prossimo incontro negli Stati Uniti?
«Abbiamo firmato un contratto di tre anni. Dovremo tornare a New York presto per difendere l’ambito titolo. Poi entro il 2020 contiamo di combattere per il titolo mondiale, un obiettivo che solo qualche anno fa ci appariva impossibile ma che ora sentiamo raggiungibile. Basterà mantenere la stessa umiltà e la stessa concentrazione. Nella boxe basta un colpo per cambiare l’esito di un match, soprattutto nella categoria di peso di Simone dove i pugni fanno male, e noi lavoriamo tutti i giorni per migliorare su tutti gli aspetti: tattico, agonistico e mentale».
Ma è più facile o più difficile avere come allievo un proprio parente?
«Nel caso nostro più facile. Conosco Simone meglio di chiunque altro, basta uno sguardo per capirci e questa intesa è alla base dei nostri successi. Anche in America la nostra storia è piaciuta tanto, ora però il gioco si fa duro e noi faremo di tutto per lasciare un segno. Ci sentiamo una squadra fortissima, anzi una famiglia fortissima, capace di vendere cara la pelle con i più forti. Il meglio - ci diciamo sempre - deve ancora venire, basta lavorarci sopra in ogni momento della giornata, come facciamo io ed il mio Simone».
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