Mefistofele-clown all’Opera di Roma, un peccatore con ironia: applausi e qualche critica

Gran parterre per il ritorno del diavolo nella città del Papa (l’ultimo allestimento risale al 2010), nel giorno del 143esimo compleanno del Costanzi

Il Mefistofele, regia di Simon Stone, che ha inaugurato il 27 novembre l'Opera di Roma
di Simona Antonucci
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Mercoledì 29 Novembre 2023, 12:21 - Ultimo aggiornamento: 12:27

Il suono dell’inquietudine arriva dalle segrete del teatro, dai cunicoli che s’intrecciano sotto le poltrone degli spettatori. Da quell’altrove sprofondato nel buio, dodici ottoni e due percussionisti avviano il dialogo con la luminosità dell’arpa, dell’orchestra, del coro. Gettando un ponte tra l’orrido e il sublime su cui avanza quel grandioso affresco musicale che Boito, ventiseienne scapigliato, compose nel 1868, con il Faust di Goethe sul leggio: il Mefistofele che il 27 novembre ha inaugurato la nuova stagione dell’Opera di Roma. Lunghi applausi per il maestro Michele Mariotti, il cast (John Relyea nel ruolo del titolo, Maria Agresta nella parte di Margherita/Elena e Joshua Guerrero in quella di Faust), l’orchestra, il coro diretto da Ciro Visco, e qualche dissenso per il regista Simon Stone.

 

IL PARTERRE

Per il ritorno del diavolo nella città del Papa (l’ultimo allestimento risale al 2010), nel giorno del 143esimo compleanno del Costanzi, si sono riuniti il sindaco Gualtieri, la ministra Roccella, Gianmarco Mazzi, sottosegretario alla Cultura, e poi scrittori (De Cataldo), artisti (Giulio Paolini autore dell’immagine della stagione 2023/24), rappresentanti delle istituzioni culturali (Dall’Ongaro, Siciliano, Cappelletti, Grifasi Porro e Ronchetti), sovrintendenti e poi Anna Foglietta, Nicola Piovani, Roberto D’Agostino.

Con qualche décolleté peccaminoso, abiti lunghi e smoking, nero e rosso, in omaggio alle tinte infernali, la Roma melomane ha affollato il foyer con largo anticipo perché “finalmente ci si rivede” e perché “chissà che brivido darà” il debutto nel titolo del direttore musicale del teatro Michele Mariotti e l’esordio italiano nella lirica del regista Simon Stone. Autore della Traviata influencer che ha conquistato l’Opéra di Parigi e della Lucia di Lammermoor oppiomane applaudita al Met, e che presto vedremo alla direzione di un thriller prodotto da Netflix, a Roma si presenta con un Mefistofele clown, irriverente nei confronti dei suoi predecessori, grottesco e modaiolo, che solletica Faust con un trionfo dei sensi e un patto riformulato: non è più l’anima, la moneta di scambio, né il sogno della giovinezza, ma una vita in rewind, godendosi tutto quello che è mancato, edonismo sfrenato, egoismo fino all’autoritarismo.

VIZI E VIRTÙ

La sua ironica lettura, vincolata a vizi e virtù della società contemporanea, la espone in modo chiaro, raccogliendo sul palco elementi fantasiosi (i social per rintracciare Faust e il lurex che avvolge Margherita, il maiale che gronda sangue e depravazione, le divise militari che richiamano tanti totalitarismi), ma strettamente necessari e decifrabili, che, quadro dopo quadro, dal prologo in cielo, alla Pasqua (nella noia delle giostra e dei chioschi di zucchero filato) dai rituali benedetti dal sangue all’epilogo in una casa di cura tra infermiere e carrozzelle, calano gli spettatori nella sua visione: Faust è uno sterile misantropo che inseguendo la perfezione si nega l’avventura troppo umana dell’esperienza, spianando la strada al diavolo, lungo la via maestra che lo conduce alla tentazione, (e quale umano di mezza età non ha mai coltivato un simile sogno?) di una seconda chance. Faust incontra Mefistofele in una stanza-studio medico con immagini che riproducono la natura ai raggi X, e da lì parte tutta un’altra storia: sesso, champagne, ma anche armi spianate. Il sipario si apre nel bianco. Il coro è appiattito lungo le pareti dello spazio scenico. Mentre più in alto, si affaccia da spiragli che separano la comunità dalla clausura. Indosso le divise che richiamano diversi obblighi sociali: i pantaloncini dei ragazzi-cherubini chiusi in collegio, le tuniche delle coree greche e i sai monacali.

IL CAOS

Il loro canto, gli uni contro gli altri, in un caos infernale, presagisce il cammino del racconto e la frammentazione dell’anima e della partitura. Il bianco si sporca di sangue. La purezza si colora di peccato. La platonica teoria delle idee si perde nella carnalità della vita. E si esce tutti un po’ contaminati dalla diabolica regia di Stone. Perché il Mefistofele di Boito, raccontato così, da una scena “scapigliata” e da una musica travolgente, è terribilmente umano. Oggi, come ieri, Faust, come un uomo contemporaneo: tutti sono “condannati” alla perenne ricerca di un equilibrio tra Bene e Male, Luce e Tenebre, Sublime e Terreno. E sedotti dal brivido sulfureo che sbriciolando gli antipodi, regala il piacere “perverso” della normalità e del compromesso. 

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