Simon Stone firma la regia di Mefistofele che inaugura l'Opera di Roma: «Per salvarci dai diavoli, bisogna commettere peccati»

Dopo una Violetta influencer a Parigi, una Lucia di Lammermoor,oppiomane a New York, il regista Simon Stone debutta a Roma con Mefistofele in abiti contemporanei («qualcuno è in divisa militare»), tuffi nell’antica Grecia e tra palline colorate. Dal 27 novembre, Michele Mariotti sul podio

Il regista australiano Simone Stone, 39 anni, durante le prove di Mefistofele all'Opera di Roma dal 27 novembre
di Simona Antonucci
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Lunedì 20 Novembre 2023, 16:39 - Ultimo aggiornamento: 26 Novembre, 19:47

«Un peccato al giorno toglie il diavolo di torno... Non so se è morale o immorale, ma avere dimestichezza con il peccato, impedisce al Diavolo di trasformare la tua vita in un terreno di conquista. Prima dell’arrivo di Mefistofele che cosa era, in fondo, la vita di Faust? Noia. La noia di un uomo che per inseguire la perfezione si protegge da tutto, dalle passioni, dal sesso, dal desiderio. Ma è in questa perfetta noia che Mefistofele, senza fare troppa fatica, spalanca le porte alla tentazione».

 

Simon Stone, australiano, 39 anni, il regista dell’opera, Mefistofele di Boito, che inaugura la stagione del Teatro Costanzi il 27 novembre, il mito lo affronta polverizzando i luoghi comuni. La sua Violetta, che ha trionfato a Parigi, era un’influencer, Lucia di  Lammermoor, oppiomane, ha conquistato il Met, e il Tristano e Isotta, simbolo della decadenza della coppia borghese, è stato acclamatoal Festival di Aix-en-Provence. E oggi, a Roma, presenta una scena bianca (asettica come la noia) e poi sporca (c’è anche un maiale che gronda sangue). Abiti contemporanei («qualcuno è in divisa militare»), tuffi nell’antica Grecia e tra palline colorate. E ai “crociati” della tradizione, risponde: «Vi consiglio un concerto dei Rolling Stones o una vecchia produzione con Pavarotti, in tv, nel vostro comodo salotto».

Si presenta come un evento il debutto operistico in Italia di Stone e dello spettacolo (su Rai5 alle 21.15 e in diretta su Radio3 Rai alle 18) che vede sul podio il direttore musicale dell’Opera di Roma, Michele Mariotti, al suo primo incontro ravvicinato con l’affresco musicale firmato da un leader della Scapigliatura Arrigo Boito. Protagonisti John Relyea (Mefistofele), Maria Agresta (Margherita/Elena), Joshua Guerrero (Faust).

Ben venga Mefistofele se libera Faust da se stesso?

«Faust è un misantropo. Un platonico, convinto che la conoscenza passi attraverso la mente, senza interagire con il corpo. Solo quando compare il Diavolo la sua esistenza si contamina di sapori e la trama acquista spessore. Boito e Goethe prima di lui non scrivono un racconto moraleggiante. Non oscillano tra il bianco e il nero. Ma individuano un’ipotesi di verità nel mezzo».

Quindi, il Male ha un suo perché?

«Se c’è una verità è che una vita ripiegati su se stessi e protesa verso la perfezione lascia la porta aperta al Male».

L’individualismo è il padre di tutti i mali?

«L’evoluzione di Faust passa attraversa ogni tipo di individualismo.

Dall’isolamento all’incontro con Margherita: scopre che può avere una donna, che può amarla. Ma è lui che può ed è lui che vuole in un’ennesima imposizione della sua personalità. Che sfocia nell’autoritarismo. Come succede nelle nostre società che hanno perso il senso della comunità e procedono verso la negazione dell’altro. Ma in questo modo proteggiamo noi stessi e nessun altro. Costruendo una fragilità in cui si inserisce il germe della distruzione».

È questa la sua lettura contemporanea?

«È la musica a raccontarlo. Il coro è presente quasi sempre e rappresenta il super ego. La comunità contro l’individualismo. Nel sabba le voci si alzano le une contro le altre: un inferno. Tranne che nel prologo e nell’epilogo quando risuona l’armonia. Ma per arrivare all’armonia serve collaborazione e ascolto».

Come si arriva all’armonia tra Bene e Male?

«La perdita di Margherita, come tutte le perdite, porta a un’apertura. In fondo è tutto molto elementare. Il dolore ti costringe a essere meno egoista».

Come ha reso contemporanee le figure femminili dell’opera?

«Non ho potuto risolvere questo punto, perché non posso riscrivere l’opera. Se avessi potuto? Avrei raccontato la storia di Margherita. Magari trasformandola in un uomo. E Faust in una donna. Lo farò in un’altra produzione».

Nella lirica, un compromesso tra tradizione e innovazione?

«L’opera ha una solida tradizione innovativa. Verdi si prendeva impensabili libertà. Con Schiller, Shakespeare. Allora veniva etichettato come un pop artist. Ma la sua forza era quella di parlare a tutti. Le sue erano hit con le arie che si ripetono come nei nostri tormentoni. Il problema della fedeltà al passato ce lo poniamo noi, oggi. Ma proteggendo il passato distruggiamo il futuro dell’opera».

In questa visione come saranno le streghe di Mefistofele?

«Esponenti di un regime totalitario».

E il sabba?

«Un rituale per sedurre nuovi seguaci».

Lei passa dal cinema (The Daughter e The Dig con Ralph Fiennes e nel 2024 un thriller per Netflix) alla prosa e la lirica: c’è un filo che tiene insieme i vari linguaggi?

«Dall’opera ho preso il ritmo, l’immagine dal cinema e il piacere della storia dal teatro. Ingmar Bergman diceva che il teatro era sua moglie e il cinema la sua amante. Io ho tre amori. E nessuno prevale sull’altro. Ma quando sono in un teatro d’opera con centinaia di persone che lavorano insieme per creare un unico suono, sento di assistere a un miracolo». 

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