Lo strumento di Gabbiani, Maestro del Coro del Teatro dell’Opera di Roma, è fatto di decine di voci che, vicine, a molto meno di un metro di distanza, diventano un’unica melodia. «Io suono quello che c’è dentro le loro anime, mi manca non poter essere con loro, non poter crescere insieme, giorno dopo giorno».
Toscano, 73 anni, ha cominciato la sua carriera nel Settanta, al Teatro Comunale di Firenze, allora sotto la guida di Riccardo Muti, poi è stato nominato Maestro del Coro del Maggio Musicale Fiorentino dove ha condotto prime esecuzioni mondiali di Clementi, Berio, Nono, Petrassi. Nel Novanta Muti lo chiama ancora una volta con sé alla Scala di Milano, ma una decina di anni dopo si trasferisce a Roma, collabora con Santa Cecilia e nel 2002 Berio lo nomina responsabile del Coro dell’Accademia. Una parentesi torinese di due anni al Regio di Torino, per prendere la direzione del coro romano del Costanzi, dal 2010.
«Prima dell’emergenza Covid-19 eravamo impegnati con le prove di Turandot, allestimento kolossal con la regia Ai Weiwei», spiega, «ora quello che posso fare è studiare le partiture al pianoforte e immaginare il suono. Oppure», continua, «affacciarmi alla finestra alle sei in punto. L’Inno d’Italia è meraviglioso, una realtà musicale potentissima. Ha dentro la forza del Risorgimento. E sentirlo oggi, che stiamo soffrendo tutti, commuove».
In si bemolle maggiore, sei strofe e un ritornello, l’inno nazionale della Repubblica Italiana, scritto da Mameli nel 1847 e musicato da Novaro, nel 1946 diventa il canto degli italiani. «Il carattere è molto eroico, un invito a risvegliare gli animi. La melodia conduce verso l’alto. Più è ricco il coro, con l’assemblea completa, più è forte il risultato».
Gabbiani lo ha diretto decine e decine di volte a teatro, per vari Presidenti della Repubblica, nelle occasioni ufficiali. «Ma qui a Monti non è male, tantissime voci.
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