Vita di un romanzo, Andrea Caterini riscopre Proust e rivela la forza segreta della letteratura

Andrea Caterini
di Andrea Velardi
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Venerdì 5 Ottobre 2018, 23:18 - Ultimo aggiornamento: 23:23
Andrea Caterini sfoglia una biografia di Proust, ritorna al progetto impossibile di scrivere su di lui in Vita di un romanzo, edito da Castelvecchi. Il critico letterario subisce una metamorfosi, uno scollamento, comincia a rifiutare la scontatezza del romanzo di finzione. E con questo il gioco al recitare delle mille comparse della vita che si conoscono e ri-conoscono attraverso una drammaturgia rituale, ipocrita, che coinvolge tutti, pure lo stesso Proust che nel Tempo ritrovato attende di entrare nel Ballo in maschera finale, dove gli attori recitano così bene da non capire più chi essi siano realmente dietro il loro travestimento. Uno straniamento senza uscita che si rivelerà come la principale obiezione al grande progetto della Recherche, alla dedizione alla verità tramite la riappropriazione del passato attraverso la memoria involontaria. 
 
Proust parlerà del «mistero inquietante» del riconoscere qualcuno, cioè del «pensare sotto un’unica denominazione due cose contraddittorie, ammettere che quello che c’era, l’essere di cui ci si ricordava, non c’è più, e che quello che c’è ora è un essere che non conoscevamo; significa dover riflettere su un mistero inquietante, quasi, come quello della morte, di cui esso è, del resto, una sorta di introduzione e di annuncio». Una contraddizione che è la vita, insita nel continuo conoscersi una seconda volta dopo una ferita, nel sovrapporre volto a volto, ma forse soprattutto nel sottrarre un volto al volto che andiamo scoprendo o disconoscendo.
 
La riscoperta dell’autore della Recherche è per Caterini un pellegrinaggio verso un nuovo orizzonte di senso e di autenticità, verso la riscoperta della necessità etica insopprimibile legata alla creazione letteraria. Il ragazzino che con i capelli raccolti in un codino va al cimitero di Père-Lachaise in cerca della sua tomba è un «archeologo di segreti già svelati», ma anche l’uomo capace di tenacia, capace di arginare quell’ impazienza che secondo il Kafka dei Diari è il difetto umano peggiore, antitetico alla creazione di un ordine estetico. Caterini integra l’ascesi a quel vitalismo che lo fa essere medaglia di bronzo ai campionati italiani di pugilato, ma poi torna alla solitudine, al desiderio di sparizione, che lo porta all’onanismo erotico nella caserma sportiva della Marina in cui viene mandato per il servizio militare. Una sessualità vissuta alla luce del nesso giovinezza, morte, sesso di Witold Gombrowicz, derisore della forma del romanzo borghese naturalista con i suoi libri che «portando all’estremo i propositi di Flaubert, erano capaci di raccontare nulla», autore di  Cosmo che nel ’62, sul Diario, diceva essere «un romanzo sulla formazione della realtà».
 
Vita di un romanzo è un dialogo con la letteratura e i suoi grandi realizzatori che si muove tra i due poli di Marcel Proust e di Franco Cordelli, il grande amico e mentore incapace di essere maestro perché troppo proiettato sulla propria opera per poterla insegnare. Con lui vive un tempo condiviso di cui necessita ogni amicizia, con gli incontri prolungati di due ore al bar di Ponte Milvio dove vedono le gare delle Olimpiadi di Rio dell’estate del 2016. Dopo una gara di pugilato dei supermassimi dove sono sorpresi dal riscatto di un inglese goffo e lento su un gigante kazako, Caterini prende di petto il confidente, esercita una franchezza dalla profondità devastante, quella che autoinfligge anche a se stesso, in modo sublime e pesante, come un cilicio che ferendo porti alla gloria, ma che a volte sia giansenisticamente troppo caricato di responsabilità. Parla del romanzo Procida di Cordelli, isola come formazione, come luogo comune e simbolico della narrativa, roccaforte cercata da Cordelli e dal protagonista, l’ unico a non essere un fantasma, un’allusione come tutti gli altri personaggi e fatti del libro. Poi, accostando anche l’ultimo libro Una sostanza sottile, gli diagnostica una ricerca di una simmetria dell’insensatezza, del disegno di un vuoto.
 
Caterini prende confidenza con l’ossessività connaturata allo scrivere, capisce che rimprovera ad Alberto Moravia una «pappa borghese» che è la sostanza del suo vero mondo, della sua mediazione conoscitiva. In questo critico giovane, e pure ossessivo anche lui, la consapevolezza si sposa sempre intimamente con la vita, una vita riconosciuta come qualcosa che né il biografo, né lo storico possono restituirci, perché non è una semplice catena di cause ed effetti, non è sintetizzabile in quella coerenza lineare davanti alla quale sarebbe inorridito Dostoevksij «dal suo lercio sottosuolo» e sulla quale ironizzava Musil che ne L’uomo senza qualità fa dire ad Arnheim: «nella storia del mondo non accade mai nulla d’irragionevole» e rispondere a Ulrich: «nel mondo sì, molto spesso!».
 
Caterini rilegge Jean Santeuil, scritto da Proust a 24 anni ma pubblicato solo nel 1952 a 30 anni dalla sua morte, quello che Contini definiva «cartone» preparatorio in cui lo scrittore lavora sui materiali umani che torneranno nella Recherche con una nuova libertà di invenzione. Il bacio della buonanotte della madre tanto atteso da Jean è quello che attende il narratore della Recherche, ma con uno spirito ossessivo irrilevabile nel primo. La relazione amorosa con Francoise nel capitolo IX ritorna in Un amore di Swann con lo schema della gelosia morbosa di Charles Swann per la elegante e approfittatrice Odette de Crécy, la scoperta del suo tradimento, il combattimento di lui che comunque vuole sposarla e la manipolazione di lei, consapevole di tenerlo ormai avvinto a sé. Jean Santeuil è una creazione della timidezza di Proust, scritto in una terza persona che fa di tutto per diventare una prima persona, mentre la Recherche è, come pensava Deleuze, una ricerca della verità.
 
La scrittura è la sola a potere raccontare il prisma complesso delle prospettive della vita, la relatività ineludibile nella quale si racconta la verità come un integrarsi di vari punti di vista. E’ Cordelli a consigliare a Caterini la lettura del Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell dove si tenta di raccontare la stessa storia da quattro angolazioni diverse (JustineBalthazar, Mountolive, Clea), tutte immerse in un tempo interiore senza azione, connotato dalla noia, in un «infittirsi di segni» che neppure la «paradossale logica» di Gombrowicz poteva ideare . Un tema questo con cui discute molto con il suo mentore che ritrova in ospedale in una condizione di solitudine che lo fa penare e lo sconforta, gli fa pensare a cosa sarebbe il non potersi confidare alla pari, l’assenza di rispecchiamento che già pervade un’epoca insensibile. Pagine martellate da un ritornello continuo: «La mia generazione non esiste». In cui l’umanesimo pervicace di Caterini fa i conti con la depressione, con il dolore, con l’insensatezza dei propri impulsi all’egoismo e alla crudeltà quotidiana, alla possibilità di tradire chi crede in te come accade nel romanzo Guerre lontane di Cordelli tra l’io narrante e Margherita e come accade con la moglie Claudia, per la quale Andrea è tormentato fino allo spasimo da una rarissima e preziosa empatia, che si estende anche alla gatta Nadia in un crescendo di riconoscenza e intenerimento per il creato.
 
L’unica via d’uscita è quella dell’approfondimento pieno dell’intreccio tra romanzo e vita, quello che viene messo a tema nelle pagine de La prigioniera che raccontano la morte di Bergotte, lo scrittore amato e poi dimenticato da Marcel, che in quel momento si rende conto di come potrebbe riscrivere tutta la sua opera alla luce di quell’evento cruciale se non il suo sopraggiungere non coincidesse con la fine. Ed è a questo punto che Caterini porta fino agli estremi gli esiti della sua immersione proustiana, mettendo in scena tutti i paradossi dell’intreccio letteratura e vita, per cui, come leggiamo nel Tempo ritrovato «la vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura». L’immagine della madre, adorata e agognata quanto detestata e criticata da un giovane che non si sente compreso nelle sue idealità artistiche, è il perno di una continua riappropriazione, esemplificata nel viaggio a Venezia, dopo la fuga di Albertine, nei luoghi di Ruskin, ispiratore della grande architettura della Ricerca con la sua Bibbia di Amiens. Caterini rilegge la lettera che Proust scrive a Robert de Montesquiou (uno dei modelli del barone Charlus) dopo la morte di lei il 26 settembre del 1905. Esamina il senso straziante della perdita, il ruolo della necessità della madre, della necessità del romanzo e dell’arte;  il ruolo della madre in Pinkerton di Cordelli, come l’orfananza sia il pretesto in esso per raccontare reti di relazioni e il teatro dell’amicizia, quello che a volte sembra sfuggire irrimediabilmente al critico solitario.

Vita di un romanzo diventa così un’esposizione magmatica e limpida, sibillina e rivelativa, oracolare e trasparente al tempo stesso della paradossalità che intreccia romanzo e vita, caso e necessita, vuoto e pienezza, mancanza e potenzialità vitale, incarnandosi nelle immagini della madre del narratore della Recherche piuttosto che dei protagonisti di L’altare dei morti di Henry James in cui emergono le simmetrie casuali che li legano portando alla comprensione che la colpa è la stessa possibilità della sua liberazione. Una analisi continuamente abbagliata da quelle architetture e simmetrie di Ruskin che hanno di mira la sola bellezza, cui è legato il viaggio a Venezia di Marcel, nelle cui pagine sembra esservi un segreto, un luccichio che dirama in tutti i suoi significati, la realizzazione della speranza più ardita: far risorgere la vita nella scrittura.
 
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