Letterature Festival: ecco un estratto dall'inedito "La memoria del mondo" di William T. Vollmann

Letterature Festival: ecco un estratto dall'inedito "La memoria del mondo" di William T. Vollmann
di R. S.
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Martedì 11 Luglio 2023, 17:33

Pubblichiamo un estratto dell'inedito che lo scrittore statunitense William T. Vollmann leggerà stasera alle 21 sul palco della XXII edizione di Letterature - Festival Internazionale di Roma, allo Stadio Palatino. Il titolo è "La memoria del mondo" (traduzione di Dante Impieri)

Mi avete chiesto di parlare della “memoria del mondo”; un argomento per me facile e congeniale, devo dire, poiché i ricordi sono la moneta più spendibile che possiedo. Questo nugolo vivace di corone, shekel e talenti mi rassicura in vista di un eventuale periodo di magra, mentre si burla di me nascondendomi gli euro che mi servono per pagare la colazione. Ogni volta che mi siedo, astuti dobloni si nascondono tintinnando al sicuro sotto i cuscini della mia poltrona da cinque dollari. Certe volte li ritrovo; altrimenti mi consolo pensando che me ne rimangono comunque in abbondanza. Franchi, lire, dinari – mi va bene tutto! – e di sicuro me ne restano ancora a manciate! Proprio ieri, quando il biglietto dell’autobus e le mie chiavi di casa sono fuggiti in luna di miele, le mie mani ansiose hanno trovato sollievo tra le fredde monete d’argento di un salvadanaio dell’impero romano! Qualche professionista dei ricordi le ha dissotterrate in una foresta di sambuco in Slovenia. Non sono così esperto da stabilire quanto varrebbe ciascuna di quelle monete al cambio attuale; stesso discorso per il loro valore reale, e cioè il significato, il mistero, il fascino tragico che matura attorno a tutte le cose che rimangono sepolte abbastanza a lungo perché la loro eccezionalità spicchi sul loro utilizzo pratico, ormai defunto da molto tempo. Con un sorriso sollevo un altro ricordo verso la luce, per osservarlo meglio.

Si dice che la prossima guerra mondiale verrà combattuta con le pietre. Per raggiungere un tale livello d’eccellenza dovremmo semplificare i nostri campi di battaglia, magari radendo al suolo l’Ucraina o Taiwan coi missili nucleari. (Anche il riscaldamento globale dovrebbe esserci d’aiuto.) In ogni caso, la nostra pioggia di sassi sarà un’apoteosi che andrà a coronare un futuro di carestia, e quindi di ignoranza settaria, egoismo dettato dalla disperazione, ostilità inventate e alimentate dai tiranni. A quel punto forse sarà rimasta una sola moneta romana in tutto il mondo – naturalmente intendo il mondo conosciuto, il cratere tra le vostre ceneri e le mie; in altre parole, chiunque disseppellisca quell’ultimo dischetto argenteo (poniamo il caso che le altre monete si siano sciolte insieme a me) non ne vedrà che l’aspetto eccezionale: come sarà possibile pensare che un tempo ce ne siano state delle altre, quando una sola moneta sarà sufficiente a comprarci tutti, quando ormai nessuno saprà che Roma è stata qualcosa di più di un sogno da amare e per cui morire?

La memoria incide e imprime le sue immagini secondo sommatorie di valore. Ma l’unità di misura del valore cambia da guerra a guerra. Qualunque cosa ci abbiano lasciato i solerti sciacalli e scavatombe del tempo, per quanto il lascito possa sembrarci prezioso, la morte ha da molto tempo stroncato le vite che l’hanno prodotto, usato e interpretato. Ricordo la bambina di cui ero infatuato quando ero uno scolaro e, sebbene nei miei pensieri abbia mantenuto una parvenza di forma, se poteste vederla come la vedo io percepireste qualcosa di simile a una statua romana senza mani, avvolta in una toga dalle pieghe oscure. Lei è una delle mie monete d’argento, elegante e coerente nella sua incomprensibilità. Ha avuto dei figli ed è morta decenni fa.

La morte lavora con lo stesso zelo anche sui vivi, ossidandone l’intelligenza mentre dormono, raschiando e corrodendo in segreto proprio quei tratti che vorremmo tanto rimanessero impressi nella nostra memoria. Dove sono, e cosa sono adesso, tanti miei colleghi e amici di gioventù? Poco importa che il loro funerale sia stato rinviato, li sto comunque perdendo; mi guardano con le orbite vuote e offuscate dai bassorilievi in marmo delle loro tombe. Date alla morte ancora qualche anno, e vedrete la terra coprire i loro volti. Ecco un autore che un tempo mi diede speranza; le sue parole permangono più vive che mai, ma le promesse che vi erano contenute sono ormai per me annerite e consunte quanto le bambole d’avorio dissotterrate che ho visto a Lubiana; secondo il museo risalivano al terzo secolo dopo Cristo…

Più invecchio e più la vita mi appare misteriosa. Proprio come i tesori si ricoprono di polvere, così il mio mondo si arricchisce di affascinanti enigmi (evviva le ragnatele, dunque!). Naturalmente capire è impossibile. È sempre stato così. È meglio agire, mi dico… Ma non come Mishima o Osama; niente fesserie sanguinolente! Se si tratta di una bambina vittima di sfruttamento della prostituzione, sicuramente mi sento in dovere di intervenire e far qualcosa per salvarla, ma se si parla di salvezza nazionale a chi devo offrire il mio supporto? Al deificato Giulio Cesare o a Bruto, l’infido liberatore? Credo che la mia indecisione dipenda dal fatto che a volte mi risulta difficile ordinare i miei ricordi del mondo in file pulite e ordinate, come piace tanto al mio infantilismo. Tra le monete e le bambole consunte ci sono cose che parlano sottovoce; non sempre riesco a sentirle. Può però capitare che, come a Dubrovnik nelle mattinate di fine primavera il profumo dei mazzetti di lavanda venduti al mercato può sollevarsi fino alle finestre del secondo piano, intorpidendone gli abitanti come un miasma, un ricordo più vivo e insistente degli altri, carico di una sovrumana crudeltà o di una dolcezza che va oltre la mia comprensione, mi invada le narici, i polmoni, il sangue e il cervello.

Per esempio quando mi torna in mente il Kosovo mi ritrovo a sentire l’odore del fumo e dello smog. Vago tra gli orrendi edifici in mattoni a Pristina, i prati coperti di rifiuti, gli slogan scritti col gesso sulle pareti, le folle in tumulto. Una nebulosa inversione termica impedisce al fumo di disperdersi, al punto che le immagini di intere famiglie aleggiano come sagome sporche davanti ai miei occhi irritati. Dev’essere il 1998, l’anno precedente ai bombardamenti americani. La memoria mi conduce a bordo di una vecchia Yugo cigolante, passo accanto a cartelli stradali che un tempo erano bilingue, ma le cui sezioni in cirillico sono state oscurate dagli attivisti albanesi. Lungo quest’autostrada ci sono villaggi assediati i cui abitanti estraevano dalla loro memoria racconti implausibili sui tempi andati, quando la popolazione di questi villaggi era ancora mista. Tra le rovine di uno di questi luoghi, un combattente albanese mi mostrò una macchia di sangue sul pavimento della cantina di casa sua; in quel punto un poliziotto serbo aveva liquidato suo padre. E al limitare di un villaggio chiamato Priluzje, che già allora era molto più serbo di quanto mai lo fosse stato, la memoria mi porta a spasso tra la nebbia sull’erba coperta di spazzatura, fino a un ponte che gli uomini che tra loro si chiamavano zingari si rifiutarono di attraversare; dicevano che da un momento all’altro avrebbero potuto subire un assalto; ci implorarono di non proseguire. I propagandisti serbi dicono un sacco di bugie, mi confidò uno zingaro. Ti posso assicurare che gli albanesi non scelgono mai la violenza. – Quindi hai ancora degli amici albanesi?, gli chiesi. No, non proprio, fu la sua risposta. – Poi mi rivolsi al poliziotto serbo che, col sorriso sul volto, disse di aver risposto al fuoco dei cecchini albanesi, entro i limiti consentiti. – Ascolta, insisté, c’è una grossa differenza. I serbi non sono responsabili di nessuna insurrezione; loro sì. Ascolta, se qualcuno si mettesse a sparare dalle finestre di una casa, quale paese sarebbe così folle da sacrificare le vite di dieci o quindici poliziotti pur di evitare un impiego eccessivo della forza? – Riportai tutto sul mio taccuino; poi un soldato irregolare serbo mi disse: È da un anno che non riesco ad attraversare il ponte. Ci siamo organizzati coi fucili da caccia. Molti di noi sono riservisti della polizia. Quando veniamo attaccati ognuno imbraccia la propria arma. Sostanzialmente cerchiamo di difendere la stazione di polizia; i civili devono arrangiarsi per conto loro. Con uno sguardo che mi scrutava fin dentro il cranio concluse: È ovvio che vogliono conquistare questo territorio, in un modo o nell’altro.

Un quarto di secolo dopo questi ricordi del mondo hanno ancora, generalmente e ipoteticamente, un significato, come qualsiasi cosa succeda, ma, amputati del loro contesto a causa della mia impossibilità di visitare di nuovo quelle regioni, verso quale direzione possono guidarmi, di preciso? Suppongo che dopo tutti questi anni siano peggiorate le vite dei kosovari serbi come di quelli albanesi.

E allora? Come si dovrebbe governare un paese tanto tormentato?

I ricordi del mondo sono per me una benedizione e una tortura – è facile lasciarmi ingannare. Ad Aquileia la testa mozzata di una donna di marmo è riuscita a convincermi di avermi visto e, ancor meglio, che io rappresentassi per lei qualcosa di più della sola pietra. Persuaso di ciò dal passaggio della luce del crepuscolo sui suoi occhi senza pupille e dalle ombre nelle sue orecchie, sulla sua fronte e sotto la sua bocca, che sbocciavano sotto il mio sguardo, ho immaginato che fossimo entrambi reali, e che lo fossimo insieme. Per quanto riguarda i suoi vicini – i grappoli d’uva scolpiti nel marmo o raffigurati in un mosaico, la stele di un cavaliere romano in piedi accanto al suo bellissimo cavallo – sono rimasti immortalmente privi di vita, reliquie di un mondo che non mi è mai appartenuto. Amo la Roma dei miei tempi, vorrei soltanto poter conoscere almeno un po’ di quella Roma, prima che andasse distrutta. Nel frattempo, tra le pieghe di una toga di marmo, muore un altro ricordo.

A volte riesco ancora a ricordare i riflessi della luce del sole sulla selce scrostata, quasi come ricordo le vetrate gotiche o il nero umido e brillante del pavimento di una caverna. Posso enumerare le scanalature parallele sui bracciali di bronzo e descrivere quelle che ho visto sull’elsa sottile di un’antica spada, forse un tempo familiare a uno dei miei antenati norvegesi, i cui ami da pesca sono piegati due volte ad angolo retto, a formare linee perfettamente parallele. Ma cosa potrei mai dedurre da un pendente ovale d’osso, intagliato per motivi ormai sconosciuti? Tutto ciò che posso dire sulle popolazioni preistoriche di Avaldsnes è che sono esistite davvero, così come la comunità di albanesi e serbi a Priluzje. Chissà quanti altri villaggi tetri e nebbiosi ho dimenticato, quante altre schegge di Realpolitik. Ma ricordo ancora che, il giorno prima di prendere il treno che mi avrebbe portato oltreconfine nella cupa e furente Serbia, a Budapest faceva freddo, e alle quattro del pomeriggio il sole già tramontava rosso come paprika. Quella sera i tram sfrecciavano affollati e lucenti, con quell’aspetto cristallino ed etereo che hanno sempre le vetrine illuminate dei negozi chiusi nelle città fredde. Quel sole di un rosso quasi marziano e quelle serre umane semoventi racchiuse nel vetro, che avanzavano nella neve, diventarono per me immagini preziose quasi quanto le stampe di Kathe Kollwitz sui tessitori martirizzati, o quanto le dolci promesse di libertà, fraternità, e uguaglianza.

Ricordo quand’ero seduto, da solo, su una sedia scomoda nella cattedrale di Kazan, a osservare le luci delle candele che tremolavano come foglie, mentre una donna dal capo coperto e con un lungo vestito nero si spostava velocemente da un candelabro all’altro per pulire la cera che colava. Quell’antica, quasi eterna finzione di luminescenza chiamata oro irradiava un delicato bagliore giallo-rossastro dalle aureole, dalle cornici delle icone e dai gelidi soli metallici, e i passi risuonavano come sussurri. Una vecchia babuska goffa e zoppicante avvolta in un impermeabile grigioverde sistemò una busta della spesa sulla sedia alla mia destra, si scusò per il disturbo, poi cominciò a frugare tra i suoi tesori, che erano fragili, rozzi e meritevoli d’immortalità, proprio come i miei. Il vecchio alla mia sinistra, che fissava una massiccia colonna di pietra, si fece il segno della croce. Questi due anziani non erano forse, in qualche modo, miei lontani parenti? Nell’immagine del mondo che aveva mio nonno sarebbero stati nostri alleati contro i fascisti, prima di diventare sovietici minacciosi. Oggi il quotidiano locale mi insegna a ricordarli alla stregua di criminali di guerra. Sarebbero potuti tranquillamente essere figure dipinte su un fregio ormai eroso, accanto a un pesce, un santo, o una donna di spalle. La vecchia si scusò e si fece il segno della croce. Presto potrei dimenticare i loro volti; non gli ho prestato abbastanza attenzione; presto, come monete, potrebbero cadermi dalle tasche…

Ricordo le piccole e graziose monete d’oro, ciascuna un piccolo sole su cui era inciso il profilo di un antico romano, o quelle ostrogote, piccoli semi neri rosicchiati lungo il bordo, e poi, gialloverdi come ossa di cavallo in un’antica tomba longobarda, le banconote di Kamakura; fu a Kamakura, a metà della strada verso la collina, che salii gli scalini fino alla tomba di Yoritomo, simile a un fallo ricoperto di muschio e circondata da un recinto con due alberi. Davanti a quella tomba, tra gli altri miei ricordi del mondo, annovero anche i fiori freschi nelle due coppette d’argento, perché fingevano con enorme zelo di essere vivi, nella brezza oceanica… E per commemorare il lontano primo secolo dopo Cristo (più o meno) una danzatrice di marmo ad Aquileia, dai bellissimi seni e col viso orribilmente eroso, ora solleva spavalda il moncherino del braccio e scuote i fianchi, continuando a vivere nella morte molto diversamente dalla sua vicina, la cui testa di marmo appare mezza sciolta come fosse fatta di cera d’api, e che mostra con malizia la propria dissoluzione nonostante l’ambigua messinscena con cui vuol farci credere di essere congelata nel tempo… Ora, dove ho messo gli altri pesos d’argento con cui stavo giocando?

Ricordo il popolo gioioso e impavido che spazzò via il muro di Berlino. Impresse nella mia memoria ci sono immagini agghiaccianti della Guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre, e di tutte quelle che sono venute dopo. Ricordo le voci intente a giurare che avremmo molto presto salvato tutte le immagini semplicemente perché uno di noi le aveva create, avremmo apprezzato tutti i ricordi semplicemente perché erano reali, avremmo celebrato proprio quelle caratteristiche dell’altro che ci risultano più aliene. Ora quelle voci sono soltanto strani mormorii, come grilli in autunno. Non smetterò di provare a ricordarle. Spero tanto non mi cadano dalle tasche.

A volte sogno ancora Lubiana; sto seduto su una panchina per un’ora intera, d’estate, a respirare l’aria fresca tra gli ippocastani cercando senza sforzarmi troppo di capire da dove provenga il canto dei tordi e chiedendomi come rendere la mia vita felice come la musica di pianoforte che sento risuonare da una finestra aperta al secondo piano, uno studio di Chopin eseguito da dita neutre e delicate poco prima di un temporale pomeridiano; di solito la musica fioriva di sera tardi, in special modo durante quelle limpide sere d’estate quando tutte le note si tramutavano in stelle, per poi esplodere in scrosci di pioggia e cadermi addosso come fiocchi di neve metallica o farfalle indaco e blu cobalto. Stando a ciò che mi suggerisce la mia inaffidabile memoria, la vita che tanto desideravo era lì, dietro quella finestra; un giorno avrebbe potuto investirmi di polvere di stelle, se solo mi fossi sforzato di sperare e migliorare; a quel punto sarei stato prezioso come i profili sulle monete romane, perché sarei appartenuto al luogo della musica, il paradiso arancione dietro la sagoma di quel pianoforte. Lampadine a incandescenza splendevano di un intenso color tuorlo d’uovo e delle tinte, appena più fredde, del dente di leone quando chiama le api a fargli visita come cavalieri volanti; giuro di aver visto in quella luce anche i toni dell’ambra e del bronzo, che le conferivano un aspetto solenne e quasi sacro, e nel nucleo di quel calmo e piccolo sole risiedeva una leggera oscurità metallica e dorata come un’icona russa. Ma non saprei dirvi perché ero seduto sotto quella finestra di Lubiana; le ragioni sono ormai arrugginite come un elmo trovato in una tomba risalente all’Età del ferro.

Raccolgo quindi tutte le mie monete e le scaglio in aria. Forse un ricordo o due continuerà a brillare anche mentre discendiamo verso l’oscurità. Sono destinate a tintinnare assieme alle altre monete senza valore, su cui il futuro procede a passo di marcia, frantumandole sotto i suoi stivali.

© William T. Vollmann, 2023

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