La terza edizione del Red Sea International Film Festival si è conclusa a Jeddah in Arabia Saudita proclamando vincitore assoluto “In Flames”, un film horror del regista pakistano-canadese Zarrar Khan, al suo primo lungometraggio che si è così aggiudicato lo Yusr d’oro. Seguendo le sorti di una famiglia di Karachi all’indomani della morte del nonno, che avvia una lotta per i diritti di proprietà a causa delle leggi patriarcali sull’eredità del paese, la figlia più giovane Mariam inizia a vivere incubi che sanguinano nella realtà.
La cermonia di chiusura
Alla cerimonia di chiusura hanno partecipato anche Nicolas Cage – che ha ricevuto il premio Red Sea Honoree – Jason Statham, Halle Berry, Gwyneth Paltrow, Adrien Brody, Dhafer L’Abidine, Henry Golding, Andrew Garfield, Yousra, Kaouther Ben Hania, Alia Bhatt, Mahira Khan, Saswan Badr e Baloji.
La giuria del festival, presieduta da Buz Luhrmann, ha premiato opere di grande attualità e slancio politico. “Dear Jassi” di Tarsem Singh, che si è aggiudicato lo Yusr d’argento è un bruciante atto d’accusa al sistema delle caste indiano.
Ma a fare incetta di premi – quattro in totale – sono stati film che hanno portato sullo schermo i temi più caldi dell’attualità dei Paesi del Medio oriente: il palestinese “The Teacher” si è aggiudicato addirittura due premi – quello per il miglior attore protagonista e quello speciale della giuria – il giordano “Inshallah a Boy” ha vinto il premio per la migliore attrice e il tunisino “Four Daughters” è stato premiato come migliore documentario.
Applausi calorosi soprattutto quando, per due volte, è stata chiamata sul palco la regista palestinese di “The Teacher”, Farah Nabulsi, che ha ritirato anche il premio assegnato all’attore Saleh Bakri che era bloccato a Ramallah, in Cisgiordania. E la regista palestinese, che vive da anni a Londra, ha lanciato dal palco un appello “perché finisca il massacro”, scatenando altri applausi.
L’attualità è entrata così nel Red Sea International Film Festival. Perché l’originalità di questo festival è quella di essere un interprete attento di tutte le mutazioni in atto in Paesi che stanno mettendo in discussione gli stereotipi in cui sono stati a lungo incapsulati. A partire dalla stessa Arabia Saudita dove, per 35 anni, dal 1982 fino al 2017, le sale cinematografiche erano rimaste chiuse perché definite “luoghi che favoriscono la promiscuità e diffondono falsi valori” e dove, negli ultimi cinque anni, si è rimessa in moto un’industria cinematografica che ha già creato due grandi centri di produzione dove sono stati realizzati 250 tra film e serie tv – per un giro d’affari che marcia spedito verso il traguardo del miliardo di dollari – e dove si è affermato oltre ogni ottimistica previsione, un festival come quello di Jeddah che, in sole tre edizioni, è stato capace di conquistarsi un posto di tutto rispetto nel circuito mondiale del cinema.
Jomana Al-Rashid, presidente della Red Sea Film Foundation, intervenendo alla serata conclusiva ha detto: «Negli ultimi 8 giorni abbiamo dato il benvenuto al mondo a Jeddah e celebrato insieme questa comunità cinematografica globale, con l’obiettivo di unire culture e creare nuovi legami. Lo abbiamo fatto con oltre 125 film provenienti da Arabia Saudita, Giordania, Egitto, Marocco, Ruanda, Armenia, Malesia, Pakistan, Nuova Zelanda, Francia, India, Tailandia e molti altri, oltre a un programma industriale nel Souk con 348 progetti presentati e 44 lavori in corso da più di 26 paesi. Siamo orgogliosi di avere creato un luogo di incontro per idee, affari e ispirazione che ci accompagnerà nel nuovo anno».
Un successo dimostrato anche dalla partecipazione di star affermate. Ma anche i nuovi cineasti dei Paesi mediorientali si sono imposti all’attenzione generale. Il caso dei tre film del filone che si porrebbe definire di “cinema impegnato” è esemplare perché ha acceso i riflettori su registi e attori di una generazione attenta a raccontare e interpretare i problemi e la voglia di cambiamento in atto. “Inshallah a Boy” racconta la storia di una vedova che deve inventare una gravidanza che potrebbe darle un figlio maschio – da qui il titolo “Se Dio vuole, un bambino” – per evitare che sia il fratello del marito defunto ad assicurarsi tutta l’eredità secondo la legge che privilegia gli eredi maschi.
Se “Inshallah a Boy’ è una denuncia delle diseguaglianze di genere, “Four Daughters” e “The Teacher” portano sullo schermo storie ancora più intrecciate con l’attualità politica. Perché due delle quattro figlie – le “Four Daughters” – di una donna tunisina, nel 2016, sono entrate nelle fila dei terroristi dell’Isis e sono realmente ancora in carcere in Libia. E il professore (“The Teacher”) protagonista del film palestinese si trova al centro di un complesso scambio tra un soldato israeliano catturato da una milizia e mille prigionieri palestinesi che si concluderà positivamente, ma che aprirà nuove ferite in un confronto che sembra infinito.
Un film, questo, realizzato ben prima del 7 ottobre ma che ha riferimenti evidenti con quanto sta accadendo adesso. Ma, al di là dei premi, Jomana Al-Rashid, ha sottolineato che la manifestrazione di Jeddah aveva tre obiettivi che ha riassunto con tre B: “to bridge, to bind and to buid”, realizzare ponti, progettare e costruire. «In fatto di costruire ponti – ha detto Jomana Al-Rashid – questo festival ha già dimostrato che il linguaggio non è una barriera, ma un legame e che le culture possono essere anche diverse ma, alla fine, convergere».
Il festival quest’anno ha accolto quasi 6mila ospiti accreditati e ha venduto più di 40mila biglietti tra tutte le proiezioni e le In Conversations. Soddisfatto Mohammed Al-Turki, Ceo della Red Sea Film Foundation: «Chiudiamo questa edizione del festival con la première MENA del film biografico “Ferrari” di Michael Mann, sostenuto dal Red Sea International Film Fund, e onorando uno dei grandi di Hollywood, Nicolas Cage, insieme a tutti i vincitori dei nostri Yusr Awards».