Donato Carrisi: «Il lockdown ha bloccato la mia creatività, avevo paura la pandemia entrasse nel mio lavoro»

Il registra e scrittore presenta il suo ultimo film ispirato al romanzo "Io sono l'abisso": «Stavolta il mostro vi farà commuovere. Qui il vero horror non sono i delitti dell'assassino, ma la sua infanzia»

Donato Carrisi: «Il lockdown ha bloccato la mia creatività, avevo paura la pandemia entrasse nel mio lavoro»
di Gloria Satta
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Mercoledì 26 Ottobre 2022, 07:31

C'è un serial killer dal passato traumatico che di giorno fa il netturbino e sceglie le vittime, solo donne bionde, scoprendo i loro segreti nei rifiuti: «Le persone mentono ma l'immondizia dice la verità», è il suo mantra. C'è una donna decisa a fermare gli omicidi mentre tutti la credono pazza. C'è una ragazzina alle prese con il revenge porn. E ci sono la paura, il mistero, il senso di angoscia e i colpi di scena tipici dei thriller di Donato Carrisi: esce in sala domani Io sono l'abisso, il nuovo film dello scrittore e regista, 49 anni, ispirato al suo omonimo best seller (Longanesi) e ambientato su un Lago di Como più cupo che mai.

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Carrisi, rivelato nel 2009 dal romanzo Il suggeritore ed esploso anche al cinema con La ragazza nella nebbia e L'uomo del labirinto (due film tratti dai suoi libri), si è affidato a un terzetto di attori straordinari, alle prese con ruoli estremi: Gabriel Montesi, 30 anni, astro in ascesa del nostro cinema, la grande Michela Cescon, la giovanissima Sara Ciocca.

Ma il regista avrebbe voluto tenere i loro nomi segreti per rivelarli solo nei titoli di coda del film: un desiderio inusuale che il dovere di cronaca impedisce tuttavia di rispettare.


Perché voleva l'anonimato per i suoi interpreti?
«Scelta artistica. I protagonisti del libro si chiamano genericamente l'uomo che puliva, la cacciatrice di mosche, la ragazzina col ciuffo viola. Penso che non comunicare in anticipo l'identità degli attori possa aiutare il pubblico ad immedesimarsi nei loro personaggi e addirittura a provare empatia per loro».


Empatia per un serial killer?
«Certo. Il thriller s'innesta con il dramma. La vera storia non è la caccia all'assassino, che non vediamo mai uccidere, ma l'abisso alle sue spalle, la sua infanzia horror. Vorremmo che fosse un mostro, ma alla fine ci commuoviamo per lui. Alle prime proiezioni ho visto tanti fazzoletti».

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È cambiata la paura dopo la pandemia, con la guerra?
«No, è sempre un'emozione primaria come l'amore. Non a caso le apprendiamo entrambe alla nascita».


Ma lei, grande autore di thriller, di cosa ha paura?
«Di tutto, altrimenti racconterei storie diverse. E immaginare che ci sia una soluzione a un pericolo, come la scoperta di un assassino, ha una funzione catartica. Ma oggi a spaventarmi di più è l'indifferenza».


Ha avuto effetto la pandemia sul suo lavoro?
«Il lockdown, che ho vissuto da solo lontano da casa, ha bloccato per qualche mese la mia creatività. Non riuscivo a scrivere perché temevo che la pandemia entrasse nel mio lavoro. E pensare che, dopo aver fatto ricerche per un romanzo che mi girava nella mente, avevo previsto nei dettagli quello che sarebbe successo. Ma quando dicevo che avrebbero chiuso tutto la gente mi prendeva per pazzo».

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Perché nel film ha affrontato il tema del revenge porn?
«Ci sono troppe cose dei nostri figli che non conosciamo. Pensiamo di proteggerli, ma i pericoli sono dappertutto».


Io sono l'abisso è ispirato a un fatto vero?
«A diversi episodi di cronaca, come del resto gli altri miei lavori. Il serial killer protagonista è un collage di veri assassini come Jeffrey Dahmer (il cannibale di Milwaukee, ndr) e Luigi Chiatti, noto come il mostro di Foligno, che conobbi quando studiavo criminologia. Girare Io sono l'abisso è stato emotivamente faticosissimo».


È andata meglio quando ha diretto il mostro sacro Dustin Hoffman in L'uomo del labirinto?
«Appena l'ho conosciuto lo chiamavo Mister Hoffman e gli davo del lei, poi prima delle riprese lui mi ha invitato tutti i week end a fare le prove nella sua casa di Londra. C'era il mio spazzolino nel suo bagno».

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Che indicazioni ha dato al bravissimo Montesi?
«Per tutto il tempo delle riprese gli ho tolto il cellulare, l'ho tenuto lontano da internet, ho impedito agli altri di rivolgergli la parola. Volevo che entrasse nel personaggio e sperimentasse l'esperienza del rifiuto».


C'è un nuovo libro all'orizzonte?
«A giorni uscirà da Longanesi
La casa delle luci».


Le piace fare il regista?
«Molto. I miei set sono macchine da guerra dove nulla è lasciato al caso. Per garantire il ritmo dirigo le scene con il metronomo, l'ho fatto anche con Hoffman. E la troupe è felicissima, non si fermavano nemmeno per mangiare».


Le dispiace essere definito un autore di genere?
«No, ne sono orgoglioso. Il mio maestro è stato Vincenzo Cerami che sapeva raccontare le storiacce come nessun altro. Sono grato anche al compianto Giorgio Faletti che ha creato il pubblico dei thriller».


Ma lei come si considera?
«Un outsider, un anarchico. Né scrittore né regista, ma sono entrambe le cose insieme».

 

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