La rivoluzione della telemedicina e le procedure a ostacoli sulla privacy

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di Sara Severoni
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Giovedì 9 Dicembre 2021, 08:26 - Ultimo aggiornamento: 10 Dicembre, 13:02

La possibilità di poter assistere i pazienti a distanza con il computer o anche il cellulare sta rivoluzionando la nostra sanità. La pandemia, da noi, ha accelerato i processi che si stavano lentamente mettendo in moto. È stato chiaro il vantaggio sia per chi cura che per chi deve essere curato. D’altronde partivamo da una situazione molto penalizzata. Come ha evidenziato Deloitte nell’indagine “Outlook Salute Italia”: solo un italiano su 5 ha attivato il suo fascicolo sanitario elettronico e meno del 25% comunica con il proprio medico via chat o via app. Con l’arrivo del Covid, la rivoluzione obbligata. Per andare incontro velocemente alle esigenze di chi, con l’infezione, veniva seguito a domicilio ma anche degli oltre 14 milioni di italiani oltre i diciotto anni colpiti da una malattia cronica e i pazienti oncologici. Ormai parliamo di televisita, teleconsulto, teleconsulenza medico-sanitaria, telerefertazione. L’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha accompagnato l’ingresso delle nuove tecnologie ma, purtroppo, ci sono ancora dei passi da fare. Per aiutare sia le strutture ospedaliere, i medici e i pazienti.

LA RETE

Per ottenere una medicina che riesca ad aiutare in maniera attiva i processi di indagine e cura costruiti intorno al mondo di chi ha bisogno di assistenza ci sarebbe bisogno di una rinnovata legge ad hoc chiara e fruibile sulla privacy.

La burocrazia, spesso distante dalla realtà tecnologica e organizzativa attuale, propone processi difficile da seguire. Con il perenne timore di sanzioni penali. Condizione che rischia, nel piccolo e nel grande, di frenare processi di ricerca e sviluppo di soluzioni digitali in materia di salute. Oggi il nostro Paese ha bisogno, ce ne rendiamo conto ogni giorno, di sistemi che riescano soprattutto a far interoperare i sistemi che esistono. La ricerca e lo sviluppo dovrebbero concentrarsi su soluzioni che riescano a creare una vera e propria rete di comunicazione tra le applicazioni già esistenti. Questo premierebbe le aziende sanitarie che hanno deciso di intraprendere questi percorsi e spingerebbero le altre ad iniziare senza esitazioni. Una delle aziende che, diciamo, ha deciso di “gettare il cuore oltre l’ostacolo” per andare incontro a pazienti è la Asl di Rieti. Che ha investito in un progetto pilota (“Tessere Smart Share”)lavorando insieme all’Associazione malati reumatici ANMAR, l’Associazione malati reumatici ALMAR, la Società italiana di reumatologia, la Federazione medici di famiglia, Federfarma e il Centro nazionale per la telemedicina e le nuove tecnologie assistenziali dell’Istituto superiore di sanità. «Puntiamo sull’efficienza e sulla continuità dell’assistenza sanitaria, garantendo così una migliore qualità di vita dei pazienti con cronicità», il Direttore Generale della Asl di Rieti Marinella D’Innocenzo ha spiegato così il progetto. Parliamo, in questo caso, di malati cronici e anziani da tempo isolati, prima dal terremoto e poi dalla pandemia. Un progetto che marcia bene ma che, quotidianamente, viene rallentato da processi burocratici legati a vecchie disposizioni legate alla privacy. Alcuni esempi. Ad ogni condivisione dei dati (ad un medico oltre quello di riferimento o un infermiere) il paziente deve dare il suo consenso. Gli arriva la richiesta sulla app e deve dire sì o no. E, se si dimentica, tutto si ferma. Il paziente dovrebbe, secondo la legge, autorizzare nome per nome tutti i cosiddetti “players” abilitati. Ma in ospedale le persone cambiano, il team degli specialisti magari si allarga, come si fa? Basta poco per bloccare le procedure. Non sarebbe, invece, possibile accreditare una serie di figure in modo da snellire ogni procedura? Pensiamo che non tutti, gli anziani in particolare accuditi da parenti o badanti, non hanno sempre il cellulare a disposizione. Per dire un sì o un no.

*Vicepresidente Associazione nazionale malati reumatici Onlus Anmar

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