L'eredità Covid/ Mario Dauri, Rianimazione Tor Vergata: «Formidabile casco, vera alternativa all'intubamento»

L'eredità Covid/ Mario Dauri, Rianimazione Tor Vergata: «Formidabile casco, vera alternativa all'intubamento»
di Valentina Arcovio
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Giovedì 10 Febbraio 2022, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 04:05

Da quando è scoppiata la pandemia la ricerca scientifica ha prodotto risultati eccezionali, modificando per sempre la gestione dei pazienti con insufficienza respiratoria ricoverati in terapia intensiva».

A parlare è Mario Dauri, responsabile della UOC Anestesia e Rianimazione dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico Tor Vergata di Roma e direttore della Scuola di specializzazione in Anestesia Rianimazione, Terapia Intensiva e del Dolore dello stesso ateneo che ha tenuto sull’argomento un corso di formazione professionale Ecm di Sanità In-Formazione per Consulcesi Club.

Professore, ci può fare un esempio concreto di come la ricerca sul Covid abbia avuto ricadute nel suo lavoro?

«La ventilazione assistita non invasiva di alcuni pazienti con grave insufficienza respiratoria. Pensiamo all’ormai noto “casco” utilizzato come supporto respiratorio nei casi di ipossiemia non così gravi da dover ricorrere all’intubazione. Questo “casco” è frutto della ricerca italiana ed è in corso uno studio multicentrico con risultati davvero promettenti. Lo utilizziamo già per gestire altre situazioni cliniche non correlate all’infezione Covid-19, come ad esempio l’insufficienza respiratoria post-operatoria.

Si può utilizzare anche come supporto al cosiddetto svezzamento alla ventilazione meccanica invasiva».

 Il casco è un sopporto che il paziente accetta più volentieri?

«Certamente sì, almeno in confronto alla ventilazione meccanica invasiva. Faccio un esempio concreto: di recente ho avuto una paziente Covid “no vax” che ha rifiutato di essere intubata, nonostante le sue condizioni lo richiedessero. Siamo ricorsi al casco e, dopo 3 settimane, la sua situazione è decisamente migliorata. Senza questa alternativa l’intubazione sarebbe stata necessaria. In futuro, potremmo proporre questa soluzione ai pazienti che si trovano in condizioni di grave insufficienza respiratoria che però rifiutano la ventilazione meccanica invasiva».

 Oltre al casco, quali altre sono state le ricadute della ricerca su Covid-19?

«Abbiamo affinato e allargato l’utilizzo della cosiddetta pronazione del paziente con grave insufficienza respiratoria. Si tratta di una tecnica che consiste nel mettere il paziente in una postura prona: gli aspetti gravitazionali che tale posizione innesca favoriscono l’ossigenazione. Abbiamo, inoltre, compreso che in alcuni casi la pronazione può essere utile anche per i pazienti non intubati, cioè quelli che richiedono una ventilazione assistita non invasiva. La pronazione ha fatto la differenza per la gestione di molti pazienti Covid e lo sta facendo anche per i pazienti affetti da altre patologie».

 Rispetto al periodo pre-pandemico il vostro lavoro oggi è cambiato tanto?

«Posso dire che l’emergenza Covid-19 ci ha insegnato tante cose, ma una delle più importanti è quella che riguarda gli aspetti organizzativi. Spero che il modello adottato per la pandemia, che vede la collaborazione di tutte le parti del nostro sistema, possa poi continuare anche in seguito, cioè anche quando questa pandemia finirà».

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