Cauda (Gemelli): «Lombardia, il rischio Covid19 esiste ma non possiamo non riaprire»

Cauda (Gemelli): «Lombardia, il rischio Covid19 esiste ma non possiamo non riaprire»
di Lorena Loiacono
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Venerdì 5 Giugno 2020, 20:12 - Ultimo aggiornamento: 6 Giugno, 11:04

Professore Roberto Cauda, direttore di Malattie infettive del Policlinico Universitario A. Gemelli Irccs di Roma, in Lombardia aumentano i contagi. Che cosa succede?
«Assistiamo ad un altalenarsi dei numeri dei contagi che dipendono comunque dal numero dei tamponi fatti giornalmente. Non dobbiamo guardare la fotografia giornaliera dei dati ma la visione cinematografica per capire il trend, cioè mettendo in fila tutte le foto. E ne esce un trend in discesa».

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Anche in Lombardia?
«Sì. L'andamento è in discesa anche in Lombardia ma con minore velocità rispetto ad altre regioni. Del resto lì si veniva da un serbatoio più ampio rispetto ad altri territori».

Ma i contagi ancora ci sono.
«Guardiamoli nel loro insieme: l'indice R0 è 0,53 per Italia e 0,62 per la Lombardia. Consideriamo che R0 raggiunge il livello di guardia quando supera 1 e la Lombardia ne resta al di sotto. Quindi stiamo ancora sotto il livello di guardia. In Germania all'inizio delle riaperture R0 era salito ad 1,1 e quindi ci fu un campanello di allarme, presero misure ad hoc e il dato si abbassò di nuovo. Questo possiamo fare: monitorare».

Le riaperture hanno inciso?
«Quello che noi oggi vediamo è l'effetto delle riaperture del 4 maggio e del 18 maggio e con relativa certezza possiamo dire che non hanno avuto effetti negativi. Per le aperture del 3 giugno dobbiamo aspettare due settimane prima di dare valutazioni e capire come è realmente andata».

Potrebbero esserci effetti negativi, riaprendo con una regione che ha ancora tanti contagi?
«Il rischio esiste ma è un rischio ponderato. Ci deve essere un bilanciamento tra la necessità della riapertura, chiesta di pari passo da tutta Italia, e il rishcio di potenziali aumenti di contagi. Possono esserci ed è inutile dire che non ci saranno».

Come ci si difende a questo punto?
«Tenendo sotto controllo la situazione, come dicevamo, monitorando. Con il metodo delle 3 T: test, tracciare e trattare. Dobbiamo poi aiutarci con le app, per poter intervenire immediatamente. Questa è la filosofia: non potendo tenere chiusa una nazione, agiamo sul tracciamento dei contagi. Anche la riapertura con i paesi europei può rappresentare un rischio ed è, in grande, quel che avviene in Italia».

Le app funzionano?
«Sì, deve scaricarla almeno il 60-70% della popolazione. E' un sistema messo in atto la prima volta in Sud Corea, con app diverse dalle nostre anche per motivi di tutela. Comunque facilita molto il tracciamento e poi possiamo contare su una serie di concause che potrebbero giocare a nostro favore».

Quali?
«Le temperature in aumento e i raggi ultravioletti potrebbero indebolire il virus così come la vita all'aria aperta. L'estate ci viene incontro in questo anche solo perché le persone non stanno più nei luoghi chiusi. E poi c'è la componente umana».

La paura del contagio?
«No, mi riferisco al senso di responsabilità: gli italiani devono sapere che il virus c'è ancora e ha determinate caratteristiche che non sono cambiate: il lockdown ci ha permesso di arrivare ad avere meno infetti, meno morti, meno ricoveri, meno persone in terapia intensiva e soprattutto più soggetti guariti. Il risultato lo abbiamo ottenuto quindi pensiamo a difenderlo con mascherine, mani pulite e distanziamento».


 

 

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