La lettera/ Pignatone: «Roma non è mafiosa ma nella Capitale la mafia c'è»

La lettera/ Pignatone: «Roma non è mafiosa ma nella Capitale la mafia c'è»
di Giuseppe Pignatone
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Mercoledì 1 Novembre 2017, 08:29 - Ultimo aggiornamento: 3 Novembre, 09:07

Egregio direttore,
la decisione con cui la Cassazione, pochi giorni fa, annullando la sentenza di appello, ha fatto rivivere, allo stato, la condanna di Carmine Fasciani ed altri imputati per associazione mafiosa è l'occasione per una riflessione. Fino a qualche anno fa, come ha ricordato di recente l'ex senatore Rutelli, la presenza delle mafie a Roma veniva negata in ogni sede e persino nelle dichiarazioni dei responsabili della sicurezza.
Ciò avveniva nonostante tale presenza fosse stata più volte accertata: basti pensare a figure come quella del siciliano Pippo Calò o quelle di numerosi boss camorristi. Mentre sulla banda della Magliana, due diverse sentenze della Cassazione erano giunte a conclusioni diametralmente opposte, a conferma della intrinseca difficoltà dei processi su questo tema.

Il convincimento che quello romano sia un territorio risparmiato dai mafiosi è tuttora molto diffuso e dopo la sentenza di primo grado nel processo a carico di Carminati, Buzzi e altri, alcuni commentatori hanno affermato che la Capitale si era liberata definitivamente dal problema mafia'.
Non credo che le cose, purtroppo, stiano così.
Dopo cinque anni di processi, frutto di indagini sistematiche sulla realtà criminale attuale, svolte da personale di polizia giudiziaria di alto livello e con esperienze specifiche, la presenza di organizzazioni mafiose attive sul territorio di Ostia che è parte integrante della Capitale e che, da sola, conta più abitanti di Reggio Calabria viene ormai riconosciuta da una decina di sentenze, di cui due definitive, che hanno condannato per il delitto di cui all'art. 416 bis c.p. o per reati specifici aggravati dal metodo mafioso, esponenti delle famiglie Fasciani e Spada. Famiglie senza alcuna derivazione dalle tradizionali mafie meridionali, ma ugualmente in grado di controllare il loro territorio anche con il ricorso alla violenza. Questa presenza mafiosa e i suoi legami con imprenditoria e pubblica amministrazione, hanno anche portato allo scioglimento del Municipio.

Andando oltre il caso-Ostia, nel territorio cittadino sono stati condannati per il reato di associazione mafiosa, con sentenza già confermata in appello, i componenti di un clan di tipo camorristico e sono state emesse nei confronti di numerose altre persone sentenze di condanna per reati specifici (usura, estorsione, traffico di droga e altro) aggravati dal metodo mafioso. Talvolta gli imputati sono risultati direttamente riconducibili alle cosche siciliane, calabresi o campane; in altri casi, tali collegamenti sono del tutto assenti. Tra i capi dei gruppi più importanti operanti nell'area romana sono stati accertati contatti diretti a risolvere i contrasti senza ricorrere alle armi. Inoltre, sono stati sequestrati (e in parte già confiscati) patrimoni di provenienza illecita per alcuni miliardi di euro; tra questi, molte attività imprenditoriali, fattore sicuro di distorsione della libera concorrenza e di espulsione dal mercato degli imprenditori onesti.

Sulla basi di queste risultanze oggettive, non si può certo affermare che Roma sia una città mafiosa nel senso in cui lo sono molte città del Sud, dove un'unica organizzazione esercita il controllo quasi militare del territorio. Ma è sicuramente un errore anche più grave negare l'esistenza di significative presenze mafiose, anche autoctone, e la necessità di contrastarle, prevenendo il rischio della loro espansione.
Ho espresso questo preciso convincimento in sede di audizione davanti la Commissione parlamentare Antimafia il 1° luglio 2015, dopo l'esecuzione del secondo gruppo di provvedimenti cautelari, confermate dalla Cassazione, del processo contro Carminati, Buzzi e altri; processo il cui impianto accusatorio è fondato, è bene ricordarlo, sulla giurisprudenza largamente prevalente della Suprema Corte, che qualifica come associazioni mafiose anche le piccole mafie' diverse da quelle tradizionali.

Per spiegare la mia opinione, in quella sede ho cercato di inquadrare correttamente la portata limitata, pur se di eccezionale gravità, di quell'associazione criminale. Lo stesso convincimento ho ripetuto a proposito dell'ipotesi di scioglimento per mafia di Roma Capitale, esprimendo parere contrario proprio perché quell'organizzazione non poteva avere, specialmente dopo l'arresto dei capi e di quasi tutti gli associati, la pervasività in tutti gli ambienti economici e sociali e la durata indefinita nel tempo che sono proprie delle mafie tradizionali, tanto più a fronte della grandezza e complessità della città di Roma e della sua amministrazione.

Questa convinzione, ribadita in molte altre occasioni, resta valida ancora oggi, a prescindere dall'esito del processo Mondo di mezzo. Il carattere mafioso (o meno) dell'organizzazione di Carminati e Buzzi, non è infatti l'elemento decisivo per rispondere alla domanda: ci sono le mafie, a Roma? Decisivo è invece il complesso delle indagini e dei processi, prima sommariamente ricordato, che confermano l'esistenza di una significativa presenza mafiosa anche nella Capitale.

Questa è la realtà dei fatti, da tenere ben distinti dalla pur legittima polemica giornalistica e politica.
Giustamente il professor Giovanni Fiandaca ha dichiarato proprio su questo giornale che la sentenza non è una consolazione rispetto al presunto alone di discredito dovuto alle indagini: il condizionamento della vita amministrativa della città è stato ampiamente riconosciuto dai giudici, che infatti hanno condannato gli imputati a pene pesantissime.

Non compete a me stabilire se tale condizionamento da parte di una organizzazione criminale, mafiosa o non mafiosa che fosse, e la gravità dei fenomeni di corruzione emersi dalle indagini, siano stati adeguatamente approfonditi nel dibattito cittadino; è certo invece che l'attenzione si è concentrata sul riconoscimento o meno della mafiosità' della Capitale, la cui inesistenza invece era stata certificata, fin dal luglio 2015, appena sette mesi dopo gli arresti, proprio dal mancato scioglimento del Comune. A proposito del quale il dr. Gabrielli, allora prefetto di Roma e oggi Capo della Polizia, ha ricordato, su queste pagine, come il parere contrario da me espresso fosse stato un punto di riferimento importante per la sua decisione.
Dato per acquisito che Roma non è Palermo o Reggio Calabria e che la capitale d'Italia ha, dal punto di vista criminale, altri e ancor più gravi problemi (la corruzione in primis), penso che occorre riconoscere la presenza mafiosa nella Capitale, nei limiti qui delineati. Questo riconoscimento è infatti la premessa necessaria per poterla affrontare e neutralizzare.

Per quanto ci riguarda, la Procura della Repubblica continua a non accettare l'idea, purtroppo molto diffusa, che la corruzione a Roma sia un fatto normale se non addirittura utile allo sviluppo. Nè, tanto meno, quella che la mafia non esista se tra gli imputati non vi sono siciliani, calabresi o campani. E su queste basi continueremo la nostra azione.
 
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