Atac, il Campidoglio chiede il concordato. Ma non si risolve il dissesto della società

di Oscar Giannino
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Sabato 2 Settembre 2017, 00:03 - Ultimo aggiornamento: 7 Settembre, 16:58
Chi sfogliasse la collezione del Messaggero, troverebbe numerosi articoli sulle partecipate pubbliche romane prima del voto per il Campidoglio. In questi articoli, numeri alla mano, ammonivamo i candidati sindaci sull’Atac. Debito cumulato e perdite di gestione record – certificati implacabilmente da Mediobanca come le peggiori tra tutte le municipalizzate italiane – rendevano pressoché impossibile evitare una condizione di default. Esisteva una sola possibilità, solo teorica: interventi immediati da parte del nuovo sindaco per tagliare a regime un paio di centinaia di milioni dal bilancio, per tornare al pareggio di gestione e non farsi affogare dal servizio finanziario di 1,3 miliardi di debito. 

Ma sarebbe stato un miracolo. Un miracolo di consapevolezza ritrovata della responsabilità pubblica, a Roma, di fronte all’immane disastro ereditato. Purtroppo il miracolo in 15 mesi non è avvenuto. Di conseguenza ecco avverarsi la nostra previsione. Per l’Atac non c’è alternativa che adire la via del concordato preventivo in continuità. Ora bisogna intendersi, per evitare pericolosi fraintendimenti. Il concordato in continuità non è che uno strumento, non significa affatto che Atac abbia neppure cominciato a risolvere i suoi problemi. Dal 2012 in avanti, con successivi interventi legislativi, è diventato uno strumento innovativo della legge fallimentare per consentire ad aziende in crisi certificata di fare due cose, senza incorrere nella discontinuità aziendale del fallimento. Innanzitutto un serio e rapido piano industriale per il riequilibrio del conto economico, cioè per tornare almeno al pareggio di gestione. E un serio piano finanziario per pagare i creditori in un certo ordine, asseverato dal giudice fallimentare secondo quanto stabilito dal codice ma proposto dal debitore stesso, che deve consegnare tutti i documenti che attestino la propria eventuale diversa stima della gerarchia di privilegio nei pagamenti. 

Nel mentre si realizzano questi due obiettivi, il patrimonio della società in concordato è posta al riparo da escussioni richieste dai creditori insoddisfatti. Ogni singolo passo è sottoposto all’esame del giudice fallimentare e di un commissario: vedremo chi verrà nominato e se sarà esterno alla società. La gestione in concordato, sotto approvazione del giudice, può procedere per l’equilibrio del bilancio e il piano di ristoro del debito ad alienazioni di rami d’azienda e dell’azienda stessa, di asset immobiliari e di crediti finanziari. Perché comunque, se non produce il riequilibrio di gestione e una credibile capacità di ripagare i debiti in tempi certi, ai debitori spetta il diritto di chiedere in ogni caso istanza di fallimento.

In parole povere, ora al Campidoglio – che presenta una domanda di concordato “in bianco” perché si riserva di produrre i documenti richiesti in Tribunale entro due mesi – spetta in un anno fare tutte le scelte che a Roma destra e sinistra hanno rinviato da un decennio. Tagliare i costi, efficientare, reperire risorse per finanziare investimenti e pagare debiti. Diciamo “un anno” non perché sia un termine di legge, ma perché in caso contrario la concessione del trasporto pubblico romano non potrà certo essere confermata in house ad Atac, se sarà all’epoca una società in concordato lontana dal riequilibrio. La concessione dovrà essere assegnata per gara pubblica, come hanno chiesto 33 mila romani in vista di un referendum da tenere nel 2018: in modo che il trasporto locale di Roma possa essere affidato a soggetti che garantiscano standard di servizio da capitale europea, e congrui rispetto a quanto i romani pagano e pretendono in cambio.

Se invece il Campidoglio crede che il concordato in continuità serva a prender tempo e traccheggiare, magari pensando a numerosi casi di concordati che in Italia durano addirittura un ventennio, sbaglia i suoi conti. È impossibile credere che il trasporto romano possa essere gestito in queste condizioni di inefficienza. È stato un errore non averlo capito subito. E dire oggi che Atac deve restare pubblica è anch’esso un vuoto slogan. È fallita, perché era pubblica. E al riparo di questo scudo partiti di ogni colore hanno praticato e consentito malagestione, corruzione e clientelismo di amici e parenti, oltre che votanti. In ogni caso non è la natura pubblica o privata del controllo a fare la differenza: la questione essenziale è la qualità del servizio offerto, in equilibrio economico e patrimoniale.

Un messaggio deve essere dunque chiaro, e riguarda anche i sindacati di ogni dimensione in Atac. Ieri hanno subito annunciato un “settembre nero” per il trasporto nella Capitale. O capiscono anch’essi che il concordato segna la fine di andazzi insostenibili. Oppure diventeranno essi per primi un acceleratore della disgregazione e cessione a pezzi dell’Atac, spartendosene la colpa con la politica dell’ultimo decennio.
 
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