I nemici della ragione/ Il populismo cristiano e gli emuli di casa nostra

I nemici della ragione/ Il populismo cristiano e gli emuli di casa nostra
di Sebastiano Maffettone
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Giovedì 27 Settembre 2018, 07:55 - Ultimo aggiornamento: 10:36
Il professor Giuseppe Conte, nel suo primo discorso da Presidente del Consiglio, ha dichiarato di essere populista se significa ascoltare i discorsi della gente. L'autorevole rivelazione non ha però posto fine al dibattito su un tema - il populismo per l'appunto - che è indubbiamente importante e attuale. Si confrontano di solito due visioni contrapposte. Da un lato, ci sono i fautori del populismo. Costoro, per la verità, spesso indulgono in un entusiasmo semantico che li porta a eccessi retorici da bar dello sport. E tuttavia hanno un argomento dalla loro: il populismo è indispensabile per integrare le masse nel sistema politico. Con l'aggiunta che questo in fondo altro non è che il vero significato della democrazia. Dall'altro alto, ci sono i detrattori. Per costoro, il populismo è un imbarbarimento, una specie di vociare indistinto di umori qualunquistici. E portano -a sostengo della loro tesi- le prove di una drammatica fine della competenza, sostituta questa da un twittare continuo e ignorante. Per loro, il populismo equivale così al tramonto della vera democrazia.

In questo serrato confronto tra fan del popolo e (autoproclamatasi) espressione della competenza c'è il rischio di perdere il senso del problema. Occorre perciò, così parecchi cominciano a pensare, mediare tra i due estremi.
Prima o poi bisognerà che i barbari capiscano Roma. Che fuor di metafora vuol dire poi consentire alle forze politiche populiste di fare esperienza del potere, di rendersi conto dei problemi reali e venirci a patti. C'è della saggezza in questa opzione moderata. Purché ci si convinca che stare con la gente non significa automaticamente avere ragione. Dopotutto, è probabile che -in tempi diversi, ma la storia si ripete- il popolo stesse con Bellarmino e non con Galilei

Sostanzialmente, bisogna qualificare il populismo. E, visto che quello più vicino a noi nell'attuale governo italiano ha un suo epicentro, va anche detto che proprio a Roma esiste un populismo qualificato. Si tratta del populismo cristiano, e il suo maggiore esponente altri non è che l'attuale Pontefice. In vari discorsi, Francesco/Bergoglio ne ha tratteggiato i contorni. Che partono da un'idea chiara ma anche controversa: per dirigere il popolo bisognerebbe stare con il popolo. Il popolo - è la tesi - non si governa dall'esterno, dall'alto di un'arroganza dottrinale non giustificata da un punto di vista democratico. Piuttosto, bisogna con-viverci, condividere le sue vicende a cominciare da quelle di chi soffre e non ha risorse (come tra l'altro recita il laico secondo principio di giustizia di Rawls). Un mix che è figlio del Sud America, dell'Argentina dopo Peron, e della retorica dei cosiddetti teologi della liberazione.
E' ovvio che il populismo cristiano non si può -alla luce del suo complesso retroterra- prendere e usare come un prodotto industriale per adoperarlo in contesti diversi da quelli in cui è nato e si è sviluppato. Ma è tuttavia una cosa seria in cui la filosofia teoretica di Guardini e Maritain incontra la teologia dogmatica di Balthasar alla luce di una profonda esperienza di vita e di pensiero. E può adattarsi anche in politica.

Ho detto in precedenza che c'è necessità di qualificare il populismo perché non è vero che basta stare dalla parte del popolo e si deve vedere anche come, perché e entro quali limiti. Il fatto stesso di essere cristiano qualifica il populismo nella versione Francesco/Bergoglio poiché lo pone in contatto con una tradizione culturale e un'etica pubblica condivise in Argentina ma assai meno adatte all'Europa figlia anche della cultura greco-romana. Ma queste caratteristiche non alleviano la crisi politico-culturale che attraversa il nostro Paese. Dove servirebbe non affiancare al populismo cristiano un populismo inteso come rifiuto della competenza e di certi valori della tradizione liberale. Ma un discorso responsabile che non venga da alcuna chiesa, semmai da un approccio laico alle cose dello Stato e dei cittadini. Altrimenti il rischio è di sommare pupulismo a populismo, una escalation che raggiunge solo il risultato di degradare il discorso pubblico, offuscando l'unica bussola: la ragione.
 
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