Luigi, Matteo e la sfida europea: basta briciole - di M. Ajello

di Mario Ajello
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Sabato 29 Settembre 2018, 07:32 - Ultimo aggiornamento: 08:17
Gli attacchi dell’Europa, vista anche la solita scompostezza, sono un regalo post-manovra. E varie altre incursioni lo hanno preceduto: basti pensare agli allarmi ideologici contro il decreto immigrazione e sicurezza. Ora questo dono il governo M5S-Lega s'è visto recapitare dall'estero. Con il probabile effetto di stringere ancora di più, invece che incrinare, quella connessione nazionale che al momento unisce società e politica. Rientra insomma nell'eterogenesi dei fini l'atteggiamento di superiorità anti-italiana, da parte degli euro-tecnocrati. E quest'ansia da reazione è anche il segno che si è colta a Bruxelles la portata della sfida che Di Maio e Salvini hanno lanciato.

I due leader hanno marciato uniti, per colpire divisi. Ossia per rassicurare e gratificare, ognuno per sé, in un attenta logica di marketing, i rispettivi elettorati: quello della Lega con il superamento della legge Fornero e quello dei 5 stelle con il reddito di cittadinanza. Ma il tandem è stato completo rispetto al quadro internazionale e al ruolo nuovo che l'Italia vi vuole giocare. Di Maio, che in questo match partiva svantaggiato, nel senso che senza reddito di cittadinanza sarebbe sparita la ragione sociale del suo movimento, ha scelto di forzare i toni sia nei confronti della tecnocrazia italiana sia di quella europea. Presentandosi ad entrambe come una sorta di Vendicatore del popolo («Voglio rivedere il sorriso sui volti dei giovani italiani») e l'affaccio dal balcone di Palazzo Chigi rientra in questo stile muscolare con cui ha gestito la gara della sopravvivenza.

Più rilassata, perché sul tema super-pop e a costo zero dell'immigrazione e della sicurezza aveva già incassato tanto, la performance di Salvini. Non il Vendicatore da «aboliremo la povertà» ma un robusto e non accomodante Giocatore di Sponda con la tecnostruttura italiana, a cominciare dal Mef. Il Carroccio pubblicamente non ha preso di petto quello che sprezzantemente Di Maio ha chiamato «il Sistema», restando leale all'alleato grillino ma dimostrando che una storia ultra-ventennale di governo locale e nazionale e una natura da partito strutturato sono caratteristiche che contano nella risoluzione delle grandi questioni. Salvini non forzando sulla Flat Tax ha evitato di stravincere, ha guadagnato un bonus manovra che potrà spendere in altre partite (per esempio quella delle nomine Rai) e comunque, nell'insieme, il match all'inizio sbilanciato è finito in equilibrio. E come positività, per i due leader, va intanto segnalata questa: la politica ha mostrato di saper avere il suo primato rispetto ai tecnici. Un dato in controtendenza rispetto alla recente vicenda italiana e alla vulgata secondo cui la debolezza dei partiti sarebbe una storia senza ritorno.

I due leader hanno cercato il successo, per spenderlo nel contesto europeo. Per dimostrare che a qualcuno a Bruxelles fa comodo avere una Italia debole ma l'Italia non vuole piegarsi a questo senso di inferiorità che le si vuole ancora imporre. Dunque la manovra, nella strategia del Salvimaio, è un modo di scuotere l'albero Ue, di strattonarlo a fini patriottici, di far cadere da quei rami - finora asfittici nei confronti del nostro Paese - frutti che possano far crescere la nostra economia e ridare fiato alla società. L'idea del tandem giallo-verde è che i politici di prima riuscivano ad avere per l'Italia soltanto le elemosine: cioè quel poco che restava dopo la contrattazione sfavorevole con l'Europa e al netto di ciò che serviva agli interessi elettorali dei vari partiti. Stavolta, si è mirato al dividendo intero, e non più alle briciole, prima ancora di sedersi al tavolo europeo. Ribaltando così la tradizione italiana, che potrebbe però malauguratamente rispuntare nel caso sprecassimo ciò che siamo riusciti a guadagnare in questa prima mano della grande partita.
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