Corbyn e gli altri: se il leader incarna solo la protesta

di Giovanni Sabbatucci
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Domenica 13 Settembre 2015, 23:26 - Ultimo aggiornamento: 23:56
Il verdetto è di quelli che non ammettono discussioni. La base del Partito laburista britannico, chiamata a indicare il suo leader e prossimo candidato alla guida del governo, ha scelto con una maggioranza schiacciante (il 60 per cento del mezzo milione circa di partecipanti alle primarie) l’opzione più radicale: un anziano parlamentare veterano di molte battaglie perdute, che non ha paura di dichiararsi marxista, repubblicano, pacifista, e soprattutto fautore delle nazionalizzazioni.



Ma anche un fautore della spesa in deficite di una fiscalità fortemente progressiva, amico dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, critico severo dell’Unione Europea e delle sue politiche di austerità. Non si tratta di una novità assoluta. Come tutti i partiti socialisti, anche il Labour - che pure, da quando è nato centodieci anni fa come emanazione delle Trade Unions, ha rappresentato per tutto il movimento operaio un modello di moderazione e di pragmatismo - ha conosciuto fasi di radicalizzazione e fiammate identitarie. E le ha regolarmente pagate, negli anni Trenta come nei Settanta-Ottanta, con sonore sconfitte elettorali (memorabile quella del 1983, quando il laburista di sinistra Michael Foot fu spianato da Margaret Thatcher). Ma questa volta il fenomeno va inserito in un contesto che va ben al di là del caso britannico e che non riguarda solo la storia della sinistra con le sue pratiche scissioniste e le sue ricorrenti pulsioni suicide.









Mi riferisco all’avanzata su scala continentale di forze antagoniste (e spesso apertamente antisistema) che non rientrano negli schemi della politica quale l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, che fuoriescono dalle logiche tendenzialmente bipolari fondate sulla contrapposizione fra progressisti e moderati in lotta per la conquista dell’elettorato di centro. Forze che, al contrario, puntano a rompere questa cornice e a presentarsi come uniche portatrici di soluzioni radicali, e ideologicamente semplificate, ai problemi complessi generati dalla crisi economica, dalle migrazioni e dalla sempre più problematica sostenibilità finanziaria dei sistemi di welfare. Radicalismi di sinistra e populismi di destra – fatte ovviamente salve le abissali differenze ideologiche – confluiscono così in un’unica corrente di mutamento che scompagina i partiti tradizionali e ne minaccia le basi di consenso.



Sta accadendo in Spagna con gli indignati di Podemos, che erodono il consenso dei partiti maggiori. E’ già accaduto in Grecia con Syriza (ora costretta a mediare fra le ragioni del realismo e quelle della fedeltà al programma originario). In Francia i socialisti non riescono a sollevarsi dai loro minimi storici (e cercano anche per questo successi di immagine in politica estera). Altrove, per reazione difensiva, i vecchi partiti sono indotti a unirsi in ampie coalizioni, con ulteriore effetto delegittimante agli occhi dei rispettivi elettorati. In Germania, ad esempio, il consolidamento della Linke ha di fatto stravolto il quadro politico, costringendo i socialdemocratici a una collaborazione subalterna con la Cdu-Csu di Angela Merkel: l’unica forza di centro-destra a godere al momento di buona salute, assieme ai conservatori di David Cameron, probabilmente tonificati dalla radicalizzazione dei loro avversari laburisti. L’Italia, in questo senso, fa storia a sé. Matteo Renzi – e questo è un merito che difficilmente può essergli negato – le ha consegnato il partito di centrosinistra più forte d’Europa, stando almeno al verdetto elettorale europeo del maggio 2014: un indubbio punto di forza in una fase di generale rimescolamento delle vecchie appartenenze politiche.



Ma proprio l’ascesa di Renzi e il suo modo di esercitare la leadership hanno suscitato nel partito democratico e in una parte minoritaria dell’opinione di sinistra una fronda che sarebbe ingenuo ricondurre a qualche specifico dissenso sulla riforma del Senato o sulla “Buona scuola”.
Ad alimentare la dissidenza c’è anche in questo caso una reazione identitaria: ciò che si contesta al segretario-presidente del Consiglio è la rottura con una tradizione, la non osservanza di un codice non scritto che vuole la sinistra nemica del decisionismo e mai in conflitto con settori sociali e gruppi d’opinione (sindacati, mondo della scuola, magistratura) individuati dopo la caduta del muro come nucleo fondante di una nuova costituency. Non stiamo parlando dunque di populismo di sinistra, e nemmeno di paleo-marxismo: Pierluigi Bersani non è Jeremy Corbyn, probabilmente non lo sarà mai. E i nostri corbyniani, i Fassina e i Civati, non sembrano in grado di spostare significative quote di elettorato. Ma una frattura del Pd consumata su basi identitarie - e per ciò stesso difficilmente componibile - potrebbe aprire nuovi spazi ai populisti veri, senza che sia al momento disponibile una plausibile alternativa di destra moderata. Anche per il nostro sistema politico si annunciano tempi agitati.