Battaglia sull’art. 18/Il rischio che l’Italia paghi le faide a sinistra

di Oscar Giannino
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Giovedì 15 Dicembre 2016, 00:19
C’è un ordigno sotto la sedia del governo Gentiloni, e ha subito fatto avvertire il ticchettio del suo congegno a orologeria. Sono i tre referendum abrogativi in materia di mercato del lavoro promossi dalla Cgil, sui quali l’Ufficio centrale per i referendum della Corte di Cassazione ha già espresso lo scorso 6 dicembre il proprio parere favorevole di conformità ai requisiti di legge, sia per numero di firme raccolte sia per l’appropriata espressione dei quesiti rispetto alle norme che s’intendono abrogare.

È attesa per la seconda settimana di gennaio 2017 la pronunzia di legittimità della Corte Costituzionale, ma l’opinione assolutamente prevalente è di un via libera. A quel punto i referendum dovrebbero tenersi tra metà aprile e metà giugno 2017, rinviabili all’anno successivo solo in caso di elezioni anticipate. Dei tre quesiti uno riguarda l’abolizione dei voucher, un secondo le norme sulle corresponsabilità di appaltatori e subappaltatori in ordine ai contratti di lavoro. Ma quello esplosivo è il terzo: propone l‘abrogazione di una delle modifiche essenziali intervenute con il Jobs Act, quella sull’articolo 18 del vecchio Statuto dei Lavoratori, e intende reintrodurre la reintegra giudiziale in caso di licenziamento senza giusta causa, e la sua estensione alle imprese sopra i 5 addetti. Dopo la vittoria del no al referendum costituzionale del 4 dicembre, il tema è diventato immediatamente incandescente nel confronto interno al Pd.


Nell’assemblea dei deputati Pd precedente il voto di fiducia al governo Gentiloni, l’onorevole Damiano ha detto senza mezzi termini che il Jobs Act a suo giudizio è ferito a morte e, se il Pd non vuole esporsi a un nuovo rigetto frontale da parte della maggioranza degli italiani nelle urne, l’unica alternativa è abolirne in parlamento le norme contestate dal referendum. La leader della Cgil Camusso ha subito rilanciato la palla, accusando il ministro Poletti di pensare alle elezioni anticipate per paura di affrontare il tema, mentre la via maestra sarebbe quella di affrontare tutti i nodi che la Cgil ha posto in una propria proposta di legge di revisione integrale del Jobs Act. Anche la minoranza bersaniana, o almeno diversi suoi esponenti, si sono già pronunciati in senso analogo.
Visto il rilievo del tema, è il caso di essere estremamente chiari. La nuova disciplina dell’articolo 18 è quella sulla quale si sono incardinati dal 2014 a oggi circa tre milioni di attivazioni di nuovi contratti a tutele crescenti. L’Istat non rileva le tipologie di contratti tra quelli nel frattempo avviati a cessazione, ma anche nella peggiore delle ipotesi più di due milioni di lavoratori hanno oggi un contratto il cui fondamento sta proprio nella profonda revisione della vecchia disciplina della reintegra giudiziale affidata alla variabile valutazione del magistrato. Siamo ovviamente pienamente rispettosi di chi è nostalgico della vecchia disciplina ipervincolistica, che rendeva il nostro sistema uno dei più rigidi tra tutti i Paesi avanzati del mondo. Ma il rispetto non ci impedisce di ribadire che quella nostalgia ha presupposti ideologici. Essi non hanno a che vedere con la necessità di avere da una parte più occupati, e dall’altra un regime di diritti e di sostegni al reddito dei disoccupati meglio coerenti e compatibili con la necessità di fondo di un sistema dinamico dell’impresa: cioè volto al miglior impiego e riconoscimento delle migliori qualifiche, e alla riformazione continua per una nuova occupabilità. Il lavoro si estende e difende nella società italiana meglio con la nuova disciplina, che tornano alla vecchia idea tayloristica di difendere il lavoro a vita dov’era e com’era.
Ci sono almeno tre ragioni per contrastare chi vuole tornare al vecchio articolo 18. Primo: la vittoria dei nostalgici creerebbe una nuova iniqua frammentazione nel già troppo frastagliato mondo degli occupati. Mentre con la riforma si è avviata una rapida transizione dalle vecchie tutele rigide a quelle nuove e dinamiche, se vincesse il no avremmo coorti di occupati pre-riforma con la reintegra giudiziale, poi milioni di occupati a tutele crescenti con la nuova disciplina che resterebbero però in un limbo, e ai quali si aggiungerebbero nuove coorti di occupati con nuovi contratti di nuovo la reintegra. Una spaccatura in tre che verrebbe assunta nel mondo come riprova della totale incapacità del nostro Paese di assumere indirizzi di riforma del lavoro tenendoli poi fermi nel tempo. Sarebbe un’Italia caricaturale alla sor Tentenna, dimmi in che anno arrivi e ti dirò che contratto ti faccio.
Secondo: la marcia indietro sull’articolo 18 ferirebbe a morte anche l’avvio delle politiche attive del lavoro, che deve partire nel 2017 con il primo esperimento dell’assegno di ricollocazione, e la tutorship diretta per riqualificare i disoccupati di lungo periodo e accompagnarli personalmente a nuovi contratti adeguati al loro profilo. Già è una novità sulla quella l’esito referendario del 4 dicembre allunga ombre preoccupanti, visto che le Regioni possono chiedere indietro le proprie competenze, bloccando così sul nascere una leva essenziale per favorire occupazione aggiuntiva. Ma cambiare l’articolo 18 significa innestare la retromarcia ideologica anche a favore del vecchio regime delle Casse Integrazioni ordinarie e straordinarie, dimenticando che esse hanno dato una prova storica irreversibile di non essere conciliabili con la riqualificazione e l’occupabilità dell’offerta di lavoro.
C’è poi una terza ragione: tutta politica. E’ del tutto evidente che il retroterra di questa iniziativa referendaria, come i suoi nuovi sostenitori che oggi vi si aggiungono nel Pd dopo il 4 dicembre, esprimono un problema di identità irrisolta della sinistra italiana. Un problema che si riapre in maniera lacerante. Proponendo un regolamento di conti il cui prezzo pagherebbe però l’intero Paese, innanzitutto chi – giovani, donne e meridionali – resta ancor oggi incatenato a percentuali di partecipazione al mercato del lavoro scandalosamente basse. E’ questa la radice delle nuove povertà diffusesi in Italia, è questa la ragione dell’enorme ingiustizia di un Paese non per giovani. A tale emergenza sociale i nostalgici rispondono continuando a pensare solo a tutele rigide e a miliardi mobilitati per prepensionare, e in entrambi i casi questi interventi sono riservati a chi un lavoro ce l’ha. Non a chi ne è sprovvisto. 
L’appello al Pd è dunque quello di non ribaltare sull’Italia il prezzo dei propri contrasti interni. Fingere che la riforma dell’articolo 18 non sia stata legittimamente votata dal Parlamento e innanzitutto dal Pd, è del tutto paradossale. E’ come ammettere che la propria leadership su temi così centrali si esprime a tentoni, riservandosi di cambiare idea ogni anno. Il governo deve vivere di vita propria, rispetto agli impegni che gli sono affidati a cominciare dalla legge elettorale. Ma un Pd che cambiasse idea tanto radicalmente su una delle sue scelte più importanti di questi anni e rifiutasse di difenderla abdicherebbe alle sue ambizioni di fronte all’elettorato.
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