Tripoli, condannato a morte il figlio prediletto di Gheddafi

di Carlo Jean
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Martedì 28 Luglio 2015, 23:27 - Ultimo aggiornamento: 29 Luglio, 00:25
Un tribunale di Tripoli ha condannato a morte in contumacia Saif al-Islam (che significa “Spada dell’Islam”), secondogenito del colonnello Muammar Gheddafi. Egli è sopravvissuto, con altri due fratelli, alla morte del padre e di altri tre fratelli nella rivolta del 2011.



La vedova del colonnello, Safia, la sorella Aisha, e i fratelli Hannibal e Mohammed sono dalla primavera del 2013 rifugiati in Oman, dopo essere stati per un anno e mezzo in Algeria, finché il governo di Algeri li aveva invitati a lasciare il paese, per evitare problemi con la Libia. Assieme a Saif, sono state condannate alla fucilazione altre otto personalità del regime, fra cui il primo ministro, al-Mahmoudi, e il capo dei servizi d’intelligence di Gheddafi, Abdullah al-Senussi. Quest’ultimo, fedelissimo del dittatore di cui aveva sposato una cognata, era particolarmente odiato per aver organizzato nel 1996 il massacro del carcere di Abu Selim, in cui erano stati uccisi 1.200 islamisti. La Brigata cirenaica “Martiri Abu Selim” ricorda con il suo nome tale eccidio. Per ironia della sorte è stata la formazione al-qaedista che ha cacciato i miliziani dell’Isis dalla loro roccaforte di Derna. Se lo ha saputo, al-Senussi avrà sorriso dal carcere.



Saif, ultimo componente della famiglia Gheddafi a lasciare il paese, era stato catturato nel novembre 2011 nel Fezzan, mentre cercava di rifugiarsi in Niger. Era stato tradito da un nomade della regione, che avrebbe dovuto servirgli da guida per passare il confine. Poi, era stato portato in aereo a Zintan e tenuto prigioniero dalle milizie della città, che sono fedeli al governo di Tobruk. Zintan si è sempre rifiutata di consegnare Saif alle autorità di Tripoli, affermando che temeva che lo lasciassero fuggire. Sembra però che il vero motivo del rifiuto sia stato quello di non lasciarsi sottrarre una “gallina dalle uova d’oro”, dati i ricchi depositi bancari che Saif possiederebbe su conti segreti in diversi paradisi fiscali. Comunque sia la condanna non verrà eseguita, dato che Zintan non lo consegnerà a Tripoli.



Sentenza e processo sono stati criticati come illegali dal ministro della giustizia del governo di Tobruk, quello riconosciuto internazionalmente. La fretta con cui il tribunale tripolino ha voluto pronunciare il suo verdetto sarebbe stata strumentale, secondo lui, alla volontà delle autorità di Tripoli di affermare con la dura sentenza la loro legittimità di fronte al popolo libico e alla comunità internazionale e, soprattutto, la loro intransigenza nell’allontanare dal potere tutti i collaboratori del passato regime. Insomma, “guai ai vinti!”, come avviene quasi sempre dopo una sanguinosa guerra civile. La condanna degli esponenti del passato regime non muterà comunque la situazione in Libia. Essa è in fase di stallo. Tutti attendono di vedere che cosa faranno le parti che non hanno firmato l'accordo preliminare per la costituzione di un governo unico, promosso dal rappresentante dell’Onu, Bernardino Léon.

Saif al-Islam è un personaggio particolare. Direi curioso. Voleva piacere all’Occidente. Era il preferito da suo padre e si diceva che fosse destinato a succedergli. Era considerato l’intellettuale della famiglia. Laureato in architettura, aveva conseguito un master a Vienna e un Ph.D. alla London School of Economics. Il conseguimento di quest’ultimo aveva dato luogo a parecchie polemiche. Era corsa voce che si fosse comprato l’ambito titolo, pagando un ghost writer e facendo versare all’Istituto la somma di 300.000 sterline dalla Fondazione di beneficenza di cui era presidente. Comunque sia, è stato molto attivo, soprattutto in politica estera. Aveva promosso accordi con l’Italia, gli Usa e la Francia. Ha fatto indennizzare dal governo libico le vittime degli attentati di Lockerbie e dell’Air Afrique. Si muoveva con disinvoltura all’estero. Al Dipartimento di Stato Usa, si diceva che esercitasse poteri simili a quelli di un primo ministro e che fosse il consigliere più ascoltato di Gheddafi. Faceva certamente parte del gruppo dirigente del paese. Pur non ricoprendo incarichi direttamente operativi, ha condiviso perciò le responsabilità del regime. Per tale motivo, la sua cattura era stata richiesta dalla Corte di Giustizia Internazionale per i crimini di guerra. Le autorità libiche hanno però rifiutato di consegnarlo a L’Aja, affermando che un processo internazionale avrebbe leso la sovranità e la dignità nazionali. Rimarrà quindi a Zintan, in attesa che qualcuno decida cosa fare di lui, una volta che il caos libico si sarà attenuato. Quando? Nessuno è in condizioni di dare una risposta. Le speranze riposte nell’accordo preliminare stanno rapidamente dissolvendosi.