«Mio figlio è morto di Aids», Mandela e la battaglia contro l'epidemia in Africa

«Mio figlio è morto di Aids», Mandela e la battaglia contro l'epidemia in Africa
di Carla Massi
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Venerdì 6 Dicembre 2013, 19:18 - Ultimo aggiornamento: 20:31
ROMA Mio figlio morto di Aids. Aveva 86 anni Nelson Mandela quando ha convocato una conferenza stampa nella sua casa di Johannesburg per annunciare che il suo unico erede maschio, Makgatho Mandela, 54 anni,era stato ucciso dal virus Hiv.

«Diamo pubblicità all'infezione - ha detto ai cronisti -. E' l'unico modo che abbiamo per farla apparire come una normale malattia. Soltanto così la gente smetterà di considerarla una cosa straordinaria, di vedere chi ne è colpito come qualcuno che è destinato all'inferno e non al paradiso». Makgatho Mandela, avvocato, dirigente del Diners Club South Africa era stato ricoverato qualche giorno prima della morte ma un portavoce della famiglia non aveva voluto rivelare da quale malattia l'uomo fosse affetto.



Voleva essere Madiba, dunque, a parlare al mondo del suo dramma condiviso e capito da migliaia e migliaia di famiglie nel suo Paese. Primo, al mondo, per numero di casi di Aids.



Il rapporto socio-politico di Mandela con la malattia è stato molto travagliato. Tanto che, nonostante i suoi appelli al mondo per permettere anche ai suoi concittadini di avere un libero accesso alle cure, oggi si dice che la battaglia contro l'infezione il grande leader l'abbia persa.



Appena rientrato in politica, nei primi anni Novanta, ebbe un approccio cauto: «Temo che parlare di sesso ostacoli la mia rielezione», disse con chiarezza nel '94. Nel '96 noni si presentò al congresso mondiale contro l'Aids perché temeva ancora ripercussioni sul suo cammino politico.



Solo un anno dopo al Forum di Davos, in Svizzera, Mandela lancia la sua sfida. Non ha favori da chiedere ma esorta la platea: «Uniti per sconfiggere l'Aids». E propone di organizzare a Durban, nel suo Paese, il congresso Mondiale sull'Aids. Una lotta iniziata bene che, purtroppo, ha dovuto cozzare contro una società impreparata ad affrontare il virus. Nonostante i progetti e gli investimenti.



I medici americani decidono in massa di disertare. Il resto del mondo, dai medici, ai ricercatori, alle associazioni dei pazienti, non mancano all'appuntamento del giugno del Duemila. Un evento che illumina il dramma dei piccoli villaggi, delle case dove le madri colpite dal virus partoriscono e vengono accudite da volontari di ogni parte del mondo. Sul palco dell'auditorium del congresso (relazioni scientifiche ma anche una marcia in favore dei malati in cui a fianco al medico tedesco ballava lo stregone, con le infermiere di Londra si accompagnavano vestite in costume donne di un villaggio dello Zambia) il 1 giugno sale Nkosi Johnson un bimbetto di 12 anni nato sieropositivo. In un lampo è simbolo della lotta all'Aids in Africa. Un anno dopo si spegne nel sonno.



Al congresso si aspetta Mandela per l'ultimo giorno. Ma nessuno del suo staff conferma né il giorno né l'ora. Intorno alle 12 quando gli incontri scientifici sono finiti e si è pronti a ripartire una folla silenziosa si va a sedere nell'auditorium. Non si sa se Madiba arriverà. Si canta, si applaude, si invoca il suo nome.



Nessuno esce. Dopo quasi un'ora di attesa arriva la macchina, lui scende vestito con uno dei suoi camicioni colorati. Un boato. Tutti dentro. Dai portieri del palzzo dei congressi alle donne delle pulizie con camici e guanti di gomma in mano fino a quelli che fuori cucinavano hot dog. Stipati all'inverosimile. In due sulle poltrone, seduti a terra.



Silenzio. Un saluto in inglese e poi un saluto nella sua lingua. Ancora un boato. «Chiediamo l'accesso immediato al trattamento anti-Aids, qui muore una persone ogni dieci minuti. La gente prima del profitto. la vita prima del debito». «Organizza, mobilita, salva. O l'Aids ti ucciderà» risponde la sala. Parla ancora, silenzio e lacrime. Anche lui china la testa e sta muto per qualche minuto. Piange i morti di Aids.
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