Stato-mafia, Scotti: «Fu la Prima Repubblica che sconfisse i boss»

Stato-mafia, Scotti: «Fu la Prima Repubblica che sconfisse i boss»
di Marco Ventura
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Domenica 22 Aprile 2018, 15:51 - Ultimo aggiornamento: 16:41

«Nessun patto con la mafia. Fu la Prima Repubblica, quella che Di Maio dice sepolta dalla sentenza sulla trattativa Stato-mafia, a gettare le basi legislative dei successi contro i mafiosi». Quella strategia Enzo Scotti la portò avanti da ministro dell'Interno fra l'ottobre 1990 e il giugno '92, insieme all'allora Guardasigilli Claudio Martelli e a Giovanni Falcone.

Quando ebbe sentore che invece qualcuno voleva trattare?
«Mai finché ci sono stato io. Il punto forte della strategia antimafia fu la rottura di ogni contiguità o debolezza verso la mafia, il contrasto a 360 gradi del potere mafioso. Le misure che prendemmo andavano tutte in quella direzione, per esempio lo scioglimento dei Consigli comunali per un'infiltrazione e condizionamento dell'attività degli organi democratici.»

Cosa succede a un certo punto?
«Lo chieda a quelli che hanno vissuto la stagione successiva. Io mi fermo al momento in cui non mi viene rinnovato il mandato a continuare l'azione anti-crimine nel nuovo governo, nel giugno '93. Mi ritrovai ministro degli Esteri, mi dimisi un mese dopo.»

Come se lo spiegò?
«Non me lo sono spiegato, eppure dissi già allora che mi sembrava strano cambiare il responsabile dell'Interno dopo la strage di Capaci. Io avevo messo in guardia la Commissione parlamentare antimafia, a marzo dopo l'uccisione di Lima, sul rischio di stragi. Dichiarai lo stato d'allerta. Non ebbi la benevolenza di alcuno, né in Parlamento né sulla stampa. Sembrava dovessi vergognarmi di avere evocato pericoli inesistenti, patacche.»

Invece furono uccisi Falcone e Borsellino.
«Le persone che avevano ispirato e collaborato alla messa a punto di quella strategia anti-mafia che oggi è considerata tra le più complete al mondo, non un corpus di leggi emergenziali ma strutturali.»

Per Di Maio la sentenza sulla trattativa Stato-mafia seppellisce la Prima Repubblica
«Della Prima Repubblica fanno parte anche quei due anni che hanno prodotto gli strumenti che hanno consentito alla magistratura di fare passi molto forti contro la mafia. Penso alle misure sul patrimonio e ad altre che furono contrastate non solo dai fautori del lassismo ma da persone che non ci aspettavamo. Penso alle polemiche sulla creazione di Dia e Dna, sui collaboratori di giustizia... Contro Falcone, sulla Dna, ci fu un'ostilità diffusa dentro la stessa magistratura. I giudici di Palermo contestarono al ministero della Giustizia quella linea. Sul decreto dell'8 giugno 92 fu espresso al Senato un voto di incostituzionalità»

Come giudica la condanna degli ex vertici del Ros?
«Per le responsabilità che ho avuto, potrò valutare solo dopo aver letto le motivazioni. Qui c'è un intreccio tra fatti qualificati come reati e altri che hanno valenza politica e rientrano in una discrezionalità delle istituzioni pubbliche.»

Come giudica la linea della trattativa?
«Dal lavoro dei giudici istruttori di Palermo negli anni '80 emergeva che la mafia è una pericolosa organizzazione criminale che tende a riconfigurare gli Stati, a indebolirli per renderli duttili rispetto agli affari criminali, e va repressa non soltanto nei singoli reati, ma come fenomeno associativo. L'interrogativo era: dobbiamo convivere in eterno con la mafia? Accettare una connivenza che diventa collusione? Concludemmo che la mafia è il nemico, l'anti-Stato, e non c'è spazio per una pax mafiosa. Ma bisognava mettere in conto la reazione violenta. Falcone lo aveva scritto: Cosa Nostra è il segmento più violento dell'organizzazione criminale chiamata mafia. Un fenomeno né locale né italiano, ma che si sta radicando come catena criminale che va combattuta attraverso una collaborazione tra Stati. Nasce così la Dia, non una quarta polizia giudiziaria ma intelligence sul network globale del crimine.»

I condannati del maxi-processo rischiarono di tornare in libertà grazie alla Cassazione
«Gli ergastolani sarebbero usciti. I mafiosi avrebbero potuto dire ai loro adepti: siamo in grado di condizionare lo Stato. Adottammo un decreto legge sul modo di calcolare la carcerazione preventiva, al limite della legittimità costituzionale. La mafia reagì con violenza, uccidendo Lima. La lezione per oggi è che la mafia non sono i siciliani con la coppola o i calabresi che non parlano italiano. O ne prendiamo atto o ci ritroveremo come in Colombia o in Messico.»
 

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