Pensioni tagliate sopra i 2.100 euro, ora partono le cause. Sindacati: «Norma illegittima, si deve pronunciare la Corte Costituzionale»

Nel mirino il mancato adeguamento dell'assegno previdenziale al costo della vita

Pensioni tagliate sopra i 2.100 euro, ora partono le cause. Sindacati: «Norma illegittima»
di Luca Cifoni
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Lunedì 9 Ottobre 2023, 00:11 - Ultimo aggiornamento: 10 Ottobre, 07:14

Nella prossima legge di Bilancio il governo potrebbe intervenire ancora sulle pensioni medie e alte, per limitare ulteriormente la loro rivalutazione. Ma è probabile che proprio su questo tema si trovi presto a doversi difendere davanti alla Corte costituzionale: in ballo c’è la norma approvata già lo scorso anno, che decurta l’adeguamento all’inflazione dei trattamenti al di sopra le quattro volte il minimo Inps. Ovvero circa 2.100 euro lordi l’anno. La campagna legale è stata annunciata dalla Cida, la confederazione dei sindacati dei dirigenti, che ha incaricato lo studio BonelliErede di avviare sette iniziative giudiziarie. L’obiettivo è che i giudici sollevino, in via incidentale, questioni di legittimità costituzionale. Nei mesi scorsi cause pilota sulla stessa materia sono state avviate anche dalla Uil pensionati.

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Il pronunciamento


La storia dei tagli alla cosiddetta “perequazione” degli assegni è in realtà lunga e ha già portato nel 2015 a un pronunciamento della Consulta. In quel caso i giudici ritennero illegittimo il provvedimento adottato tre anni e mezzo prima dal governo Monti; che era intervenuto in maniera ancora più drastica, azzerando la rivalutazione per i trattamenti superiori a tre volte il minimo Inps (circa 1.450 euro mensili in base ai valori dell’epoca). L’esecutivo Renzi, che nel frattempo era subentrato, dovette correre ai ripari con un costoso decreto legge che restituiva, almeno parzialmente, l’adeguamento non riconosciuto in precedenza. Le motivazioni messe nero su bianco dai giudici costituzionali sono le stesse a cui faranno appello le cause che stanno partendo: il principio è che lo Stato può sì decidere di non riconoscere ai pensionati il recupero pieno dell’inflazione, ma deve farlo eventualmente solo in casi particolari e motivando in modo dettagliato e non generico le esigenze di finanza pubblica che portano a una scelta così grave. Altrimenti risultano violati alcuni diritti sanciti dalla stessa Costituzione, in particolare l’adeguatezza dei redditi per gli interessati, anche sulla base della prestazione lavorativa fornita prima di andare in pensione.
Sono molti i governi che dall’inizio del secolo sono intervenuti in corsa per cambiare le regole vigenti, a danno dei pensionati. La norma che disciplina in via normale la rivalutazione risale al Duemila, ma è stata spesso disapplicata in particolare negli ultimi dodici anni. Prevede che ai trattamenti previdenziali fino a tre volte il minimo Inps sia riconosciuto il 100 per cento dell’inflazione, mentre tra le tre e le cinque volte il minimo e oltre le cinque volte l’adeguamento dovrebbe essere decurtato rispettivamente del 10 e del 25 per cento, solo però per la parte di assegno che supera queste soglie. Le regole attualmente in vigore sono molto più penalizzanti e prevedono tagli dal 15 al 68 per cento ma calcolati sull’intero importo.
Nei giorni scorsi la Cida ha dedicato al tema uno specifico evento, annunciando per bocca del presidente Stefano Cuzzilla l’intenzione di «dire basta a interventi iniqui e lanciare una petizione in difesa delle pensioni del ceto medio».

Obiettivo, spingere il governo «ad adottare provvedimenti strutturali e lungimiranti per una visione di Paese più equa e giusta».

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L’incontro


All’incontro è intervenuto anche Alberto Brambilla, presidente del centro studi “Itinerari previdenziali”, che ha ricordato alcuni dati sugli effetti dei vari tagli alla rivalutazione. In particolare solo per effetto della normativa in vigore nel 2023 e 2024 i trattamenti interessati avranno una perdita di potere d’acquisto tra il 7,5 e il 9 per cento; il trasferimento dalle loro tasche al bilancio dello Stato nei prossimi dieci anni ammonterà a circa 40 miliardi (valore che si ottiene sommando gli effetti cumulati del tempo di una decurtazione che non viene recuperata). Aggiungendo l’impatto dei tagli che per legge sono destinati a scattare anche il prossimo anno il conto - nello stesso arco di tempo - sale di altri 20 miliardi. Le cause avviate puntano proprio ad evitare che queste previsioni si concretizzino.

 

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